The mind beyond the mind - HD School Generation -


Linguistica Cognitiva

17.11.2012 18:26

Geroglifici e linguaggio del corpo: strutture comunicative universali

L’affascinante mondo della scrittura geroglifica, che per secoli è rimasta indecifrata fino alle geniali intuizioni dello studioso Jean-François Champollion (Figeac, 23 dicembre 1790 – Parigi, 4 marzo 1832) che ne permise la decifrazione, si mostra molto più universale di moltissimi altri sistemi di scrittura. Il suo sistema è basato su ideogrammi, ovvero disegni che rimandano direttamente al termine che rappresentano e fonogrammi, cioè disegni che corrispondono ad un suono, anche se spesso gli stessi segni possono essere usati sia come ideogrammi che come fonogrammi, è il contesto che ne fa intuire il valore. Tra la miriade di segni ve ne sono molti che fanno capo al corpo umano e molto spesso il significato che comunico è diretto e travalica la conoscenza in sé della lingua poiché si rifà ad un linguaggio universale che è quello del corpo.


Oggi prenderemo in considerazione il segno detto “delle braccia in senso di diniego”. Questo ideogramma è usato per esprimere degli avverbi di negazione n e nn che coincidono con l’italiano No e Non, ma anche è messo di seguito al verbo ẖm che significa “ignorare, non sapere, non essere a conoscenza”. Facilmente si individuano in questo ideogramma tutte le caratteristiche universali per dimostrare che non si sa una cosa o che non si capisce ciò che l’interlocutore sta dicendo. L’ideogramma esprime bene il gesto multiplo che avviene nella realtà quando un individuo vuole dimostrare ad un interlocutore che non si sa o non si è compreso ciò che veniva richiesto. I palmi delle mani aperte e poste verso l’alto mostrano che non si nasconde nulla in mano, nel senso che non si sta mettendo; il disegno delle spalle sollevate atte a proteggere la gola da eventuali attacchi ed in segno di sottomissione poiché anche se nel disegno non si vede, presuppone un leggero abbassamento del capo con fronte corrugata, comunica, così come nella realtà, anche l’idea di un atteggiamento reale di fronte ad una situazione incomprensibile.
Questo dimostra quanto fossero attenti a determinati atteggiamenti del corpo e come potessero ispirare un vero e proprio medium comunicativo complementare ad una lingua. Da notare inoltre che in 3000 anni di storia, sebbene la lingua abbia subito delle sensibili modifiche, anche a livello di radici, il segno di là di un cambiamento fonetico rimase per esprimere sempre lo stesso insieme semantico.

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30.09.2012 13:51

Le 15 più comuni distorsioni cognitive

Cosa è una distorsione cognitiva e perché sono così comuni? Le distorsioni cognitive sono i modi attraverso i quali la nostra mente ci convince di qualcosa al di là che sia vero o no. Questi pensieri approssimativi finiscono spesso per rafforzare il pensiero negativo o emozioni negative in modo che suonino come cose  razionali e precise, ma in realtà servono solo a tenerci in uno stato negativo.

Per esempio, una persona potrebbe dire a se stessa: "Mi va sempre tutto male quando tento di fare qualcosa di nuovo, Non riesco ad tottenere i risultati che mi sono prefissato." Questo è un esempio di pensiero dove le alternative che si percepiscono solo solamente due: "bianco o nero". La persona vede le cose in termini assoluti. Per questo poi il passo successivo è l'anticamera della depressione: "Devo essere un perdente, un completo fallimento".

Imparando a identificare correttamente questo tipo di "pensiero depotenziante" una persona può contrapporsi al pensiero negativo e confutarlo.

Albert Ellis e Aaron Beck affermano che  il nostro modo di pensare influenza la nostre emozioni. Non è il fatto che ci sia il sole o che sia nuvoloso a fare di una giornata una bella giornata, ma il significato che il sole o le nuvole hanno per noi; ed hanno messo in luce come nell’indirizzare i nostri pensieri agiscano veri e propri errori formali di ragionamento: errori logici.

Gli autori hanno individuato alcune delle distorsioni cognitive più comuni:

 

1. Filtraggio.

Prendiamo i fatti negativi e li ingrandiamo mentre filtriamo tutti gli aspetti positivi di una situazione. Per esempio, una persona può scegliere un unico dettaglio sgradevole e soffermarsi esclusivamente su di esso in modo che la sua visione della realtà diventa oscurata o distortoa.

 

2. Pensiero polarizzato (o Pensiero "Bianco e nero").

Nel pensiero polarizzato, le cose sono o "nere o bianche." Dobbiamo essere perfetti o siamo un fallimento - non c'è via di mezzo. Le persone o le situazioni sono  "o / o", senza gradazioni di grigio tralasciando la complessità della maggior parte delle persone e delle situazioni. Se la prestazione è inferiore alla perfezione, ti vedi come un fallimento totale.

 

3. Supergeneralizzazione.

In questa distorsione cognitiva, arriviamo a una conclusione generale sulla base di un singolo episodio o una sola prova. Se succede qualcosa di brutto solo una volta, ci aspettiamo che accada più e più volte. Una persona può vedere un singolo evento sgradevole come parte di un modello senza fine di sconfitta.

 

4. Saltare alle conclusioni.

Senza averne reali conferme, sappiamo già ciò che gli altri sentono e perché si comportano in un certo modo. In particolare, siamo in grado di determinare come le persone ci percepiscono.

Ad esempio, una persona può concludere che qualcuno sta reagendo negativamente, ma in realtà non si prende la briga di scoprire se le sue conclusioni sono corrette. Un altro esempio è che una persona può preannunciare che le cose andranno male, ed è convinta che la sua previsione è già un dato di fatto.

 

5. Catastrofismo.

Ci aspettiamo un disastro da un momento all'altro. Questo è chiamato anche "ingrandimento o minimizzare." Abbiamo sentito parlare di un problema e utilizzare ciò che se le domande (per esempio, "E se  capita una tragedia?" "E se succede a me?").

Per esempio, una persona potrebbe esagerare l'importanza di eventi insignificanti (come un proprio errore, o di qualcun altro). Oppure può impropriamente ridurre l'entità di eventi significativi fino a quando non gli sembrino di scarsaimportanza .

Con la pratica, si può imparare a rispondere a ciascuna di queste distorsioni cognitive.

 

6. Personalizzazione.

La personalizzazione è una distorsione in cui una persona crede che  tutto ciò che gli altri facciamo o diciano è indirizzato alla sua persona. Inoltre, ci confrontiamo con gli altri cercando di determinare chi è più intelligente, più bello, ecc

Una persona che eserciti la personalizzazione può anche vedere se stessa come la causa di qualche evento esterno malsano di cui non èresponsabile. Ad esempio.

 

7. Controllo fallace.

Se ci sentiamo esternamente manipolati, cioè vediamo noi stessi come una vittima impotente del destino. Ad esempio, "io non posso farci niente se la qualità del lavoro è scarsa, il mio capo mi ha chiesto gli straordinari." L'errore del controllo interno ci fa assume la responsabilità per il dolore e la felicità di coloro che sono intorno a noi. Ad esempio: "Perché non sei felice? E 'a causa di qualcosa che ho fatto? ".

 

8. Errore di equità.

Ci sentiamo risentiti perché pensiamo di sapere ciò che è giusto, ma gli altri non saranno d'accordo con noi.

 

9. Incolpare.

Noi riteniamo  le altre persone responsabili del nostro dolore, o pincolpiamo noi stessi per ogni problema. Ad esempio, "Smettila di farmi stare male con me stesso!" Nessuno ci può "fare" sentire in nessun modo particolare - solo abbiamo il controllo sulle nostre emozioni e reazioni emotive.

 

10. Dovrei.

Abbiamo una lista di regole ferree su come gli altri si devono comportare. Le persone che infrangono le regole ci fanno arrabbiare, e ci sentiamo in colpa quando si violano queste regole. Molti  credono di motivare se stessi con  "i dovrei" come se dovessero essere puniti prima di poter fare qualsiasi cosa.

Per esempio, "Mi dpvrei esercitare. Non dovrei essere così pigro".

 

11. Ragionamento emotivo.

Noi crediamo che ciò che sentiamo deve essere vero automaticamente. Se mi sento stupido e noioso, allora dobbiamo essere stupidi e noiosi.

 

12. Fallacia del cambiamento.

 Abbiamo bisogno di cambiare le persone, perché la nostra felicità sembra dipenda interamente dagli altri.

 

13. Etichettatura globale.

Si generalizzano una o due qualità in un giudizio globale negativo. Si tratta di forme estreme di generalizzare, e sono anche indicate come "etichettatura" e "errore di etichettatura." Invece di descrivere un errore nel contesto di una situazione specifica, una persona attaccherà un'etichetta malsana a se stessa.

Ad esempio, può dire: "Sono un perdente", in una situazione in cui non sono riuscito in un compito specifico.

 

14. Avere sempre ragione.

Ci sentiamo sempre sotto esame e dobbiamo dimostrare che le nostre opinioni e le nostre azioni siano corrette. Sbagiare è impensabile e faremo di tutto per dimostrare la nostra ineccepibilità. Ad esempio, "non mi importa quanto male ti fa sentire discutere con me , ho intenzione di vincere questa discussione con qualsiasi mezzo, non  importa quale, perché ho ragione".

 

15. Ricompensa divina.

Ci aspettiamo che il nostro sacrificio e la nostra abnegazione paghi, come se c'è qualcuno a tenere un punteggio. Ci sentiamo amareggiati quando il premio non giunge.

 

Riferimenti:

Beck, A. T. (1976). Cognitive therapies and emotional disorders. New York: New American Library.

Burns, D. D. (1980). Feeling good: The new mood therapy. New York: New American Library.

 

G. D.S:

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24.09.2012 08:36

A proposito dei tamburi parlanti dell'Africa

Le Scienze 1972 marzo n. 43 I tamburi parlanti dell'Africa di John. F Carrington

Nonostante siano state raccontate molte fantasie su questo argomento il linguaggio dei tamburi è una realtà. Inoltre, i suonatori di tamburo sono stati i primi a utilizzare il principio della ridondanza.

Ciò che si racconta sul linguaggio dei tamburi dell'Africa suscita, generalmente, o una approvazione incondizionata oppure un infondato scetticismo. Questo ultimo si spiega con le strane teorie per le quali il linguaggio dei tamburi ha una velocità di trasmissione maggiore di quella del suono, o con altre che dichiarano l'esistenza negli uomini a primitivi » di percezioni extrasensoriali, oramai atrofizzate nei popoli più civilizzati. Per poter spiegare il linguaggio dei tamburi non vi è certo bisogno di fare appello alla telepatia. Il suo meccanismo può venire definito prolisso, ma nessuno che abbia vissuto nell'Africa centrale può dubitare della sua esistenza. In molti villaggi del Congo la presenza di una o più capanne dove si tengono i tamburi, oppure l'uso di questo linguaggio per trasmettere i più comuni messaggi, bastano a eliminare ogni incredulità. Ricordo di avere visto un giorno due uomini che mi venivano incontro in una strada di un villaggio. Uno dei due balzò nella capanna ove era posto il tamburo e batté un rapido messaggio prima di raggiungere l'amico. Il villaggio era situato in una zona della quale non conoscevo il linguaggio dei tamburi, ed ero curioso di scoprire cosa quell'uomo avesse segnalato in cosi breve tempo, dico breve tempo perché in genere un messaggio non è più lungo di alcuni minuti. Egli mi disse che quella mattina aveva lasciato le sue sigarette a casa, distante all'incirca un chilometro. Sapendo che un amico intendeva raggiungerlo più tardi, lo aveva chiamato mediante il tamburo per pregarlo di portargli le sigarette. Messaggi non più importanti di questo possono essere uditi mattina e sera e spesso per tutto il giorno e per tutta la notte in molti villaggi della repubblica del Congo ed in altre regioni dell'Africa a sud del Sahara. di John F. Carrington Il significato del linguaggio dei tamburi — o, come più giustamente viene chiamato nel Congo, il linguaggio gong —è rimasto circondato di mistero in parte a causa della confusione creata dal linguista tedesco Cari Meinhof che è stato uno dei primi a interessarsi al problema. Ascoltando i suonatori di gong di una comunità del Camerun, egli cercò di fare un paragone fra le note suonate e la loro lingua parlata. Per esempio, per esprimere il concetto di « cane », i suonatori di gong trasmettevano un segnale di sei sillabe che foneticamente si traduce in un kuku totokulo. Nella lingua parlata, il vocabolo che vuol dire a cane », invece, era mbo. Meinhof concluse che a non vi è alcuna rassomiglianza fra i suoni battuti sul tamburo e il linguaggio parlato dalla gente », creando un ingannevole mistero che è alla base della confusione che perdura ancora oggi. Meinhof, tuttavia, non era stato intenzionalmente ingannato dai suoi informatori; per esprimere senza ambiguità un significato che viene chiaramente trasmesso in una sillaba del linguaggio parlato, possono occorrere sei o dieci o più sillabe del linguaggio gong. Fra i lokele, il gruppo linguistico dell'Alto Congo che mi è più familiare, la locuzione gong che significa «cane » ha 14 sillabe e la parola che esprime lo stesso concetto « cane » (ngwa) ne ha una sola. Tradotta, l'espressione gong ha il seguente significato: a cane gigante, piccolino che abbaia kpei kpei ». Certamente la parola a cane » appare nella frase gong, ma tutte le altre parole sono destinate a chiarire che ciò che si vuol esprimere è un cane e non qualcosa altro rappresentato da una parola di una sillaba in tono basso. Questa forma di linguaggio gong è dovuta al fenomeno della tonalità, elemento chiave di quasi tutti i linguaggi africani e praticamente assente dalle lingue europee. Facciamo un esempio in italiano. La frase a loro sono in casa », quando viene detta con uguale accento posto su ogni parola ha chiaramente un significato diverso da un interrogativo «loro sono in casa? » o da un enfatico a loro sono in casa! » Nel primo caso la voce di chi parla cala di tono durante la affermazione. Nel secondo, a casa » è detta in tono di voce più alto e nel terzo a in » è la parola accentuata. Nei linguaggi congolesi questo uso « semantico del tono » è evidente in ogni singola parola. Nella lingua lokele parlata, che è composta di 19 consonanti e di nove vocali, è possibile comporre solo 133 suoni sillabici distintamente diversi, il risultato di 19 per sette. Mediante, però, delle variazioni di tonalità, le parole formate da identiche sillabe possono essere diverse l'una dall'altra. Negli esempi seguenti le sillabe di tono acuto verranno indicate dalla lettera maiuscola e quelle di tono basso con la lettera minuscola. Prendiamo la parola che significa rame: bosongo. Le stesse tre sillabe significano anche « corrente del fiume» e pestello ». Le tre sillabe per rame, però, sono in tono basso, mentre « corrente del fiume » è bosoNGO e« pestello » è boSONGO. Cosí come longo significa « irritazione », LOngo è « collina » e loNGO vuole dire « cranio». Stranamente non esiste in lingua lokele la parola LONGO, la quarta possibile variazione di tono. Poiché abbiamo visto che in questa lingua ogni sillaba può venire detta sia in tono alto che in quello basso, vi sono quattro modi possibili per accentuare una parola di due sillabe, otto modi di accentuare una parola di tre sillabe, e cosí via. Lo straniero sprovveduto può facilmente incontrare delle difficoltà. Per esempio, liAla significa « fidanzata » mentre fiala vuole dire a deposito di rifiuti ». Colui che dice aSOoLAMBA bolli invece di aSOolaMBA boili ha annunciato di « avere messo a bollire sua suocera » invece di « stare a guardare la sponda del fiume ». Tenendo presente che nel linguaggio parlato esiste questa precisa distinzione fra le due tonalità, l'una alta e l'altra bassa, consideriamo ora il linguaggio dei tamburi e quello dei gong. Il tamburo è un membranofono; la membrana di pelle, che vibra quando viene percossa, è tesa su di un risonatore fatto di legno, terraglia o altro materiale. Lo strumento usato nell'alto Congo per mandare messaggi è composto interamente di legno e tutto lo strumento vibra quando viene percosso. Questo è quindi un idiofono, come i gong di metallo e le barrette di legno e di metallo dello xilofono e del glockenspiel. I gong in legno del Congo sono quasi sempre ricavati dal cuore del legno rosso di un albero d'alto fusto che secerne anche una sostanza polverosa che viene cosparsa sul corpo in occasione di determinate cerimonie. Il fabbricante di gong scava una apertura in un tronco rotondo di questo legno rosso e poi incava il tronco del tutto, facendo attenzione di asportare più legno da una parte della apertura che dall'altra. Ne risulta che quando un orlo della apertura viene percosso con un bastoncino ricoperto di gomma, il gong emette una nota bassa, e quando si percuote l'altro orlo, viene prodotta una nota più alta. Gli africani che usano i gong considerano il suono più basso come la voce del marito e quello più alto come la voce della moglie. Questo si riferisce, inoltre, al grado di intensità più che al tono stesso. Se il suono acuto di un gong ha maggiore portata di quello basso, sarà quello che arriva più lontano ad essere considerato il maschio. Il suono del gong può arrivare molto lontano. Se uno strumento di grandi proporzioni viene posto sulla sponda di un fiume, lo si può udire, nelle fresche e quiete ore della sera o del primo mattino, sin a otto o nove chilometri di distanza. I gong più piccoli si fanno sentire per tre o quattro chilometri. La forma più semplice di gong parlante è quella usata dai lokele che vivono vicino a Kisangani (ex Stanleyville), dove è conosciuto come boungu o bongungu. Consiste semplicemente in un cilindro di legno rosso incavato e aperto per tutta la sua lunghezza. I mongo del Congo centrale adoperano un gong simile a questo (che chiamano lokole), con la differenza che gli orli dell'apertura hanno delle piccole sporgenze regione del Katanga (chiamato mondo) ha delle sporgenze ancora più lunghe. La zona marginale sotto le sporgenze del mondo è cosí spessa che l'apertura sembra consistere di due cavità quadre unite da una stretta fessura. I gong in uso nella zona dei mayombe, vicino alla costa dell'Atlantico, sono simili; la loro parte esterna, tuttavia, non è di forma circolare a sezioni trasversali, ma quasi triangolare. Verso il nord gli azande ed i loro simili producono dei gong elaborati ai quali viene data la forma di un animale, come per esempio l'antilope, completa di testa, coda e quattro zampe; l'apertura segue la linea della spina dorsale dell'animale. Come possono parlare i gong? Il lettore, probabilmente, avrà già intuito un nesso fra gli alti e i bassi toni dei linguaggi congolesi e i due « toni di voce » dei gong, e può aver scoperto il motivo della necessità, da parte dei trasmettitori del Camerun, di usare sei sillabe tambureggiate per esprimere la parola di una sillaba che significa « cane». Il fatto è che i due toni del gong non vengono usati per trasmettere vocali e consonanti ma per imitare i toni di frasi comunemente usate. Ciascuna frase è riconosciuta dal trasmettitore e da chi la riceve come l'equivalente di una data parola del linguaggio parlato, come viene dimostrato dai seguenti esempi. In lingua lokele la parola per « banana » è likondo. L'equivalente frase nel linguaggio gong è likondo LlboTUmbela, che significa «un grappolo di banane sorrette ». La parola per «manioca » è lomata; la frase gong è lomata oTlkala KOndo, o «manioca lasciata su terreno incolto». Ugualmente, la parola per « in alto » è likolo e la frase gong è likolo koNDAUSE, o « in alto nel cielo ». «Leopardo» è ngoi ma viene trasmesso come ALONGA losambo, o « egli lacera il tetto », « capra » è MBUli e trasmesso diviene iMBUmbuli SHAoKENGE, cioè « piccola capra del villaggio », e « legna da ardere », toALA, è trasmessa come tokolokolo TW A toALA, o « piccoli pezzi di legna da ardere ». Dunque se il traismettitore mandasse semplicemente i toni delle prime tre parole sopra citate — likondo, lomata e likolo — ciascuna verrebbe rappresentata da tre identici colpi sulla parte « maschile » del gong e i suoni sarebbero inidentificabili l'uno dall'altro. Poiché invece ogni parola viene rappresentata da una lunga frase accentuata, l'intera melodia della frase è sufficiente a identificarla. Basta solo che colui che trasmette e colui che riceve abbiano in comune una certa quantità di frasi stereotipate. La ragione per cui le frasi sono spesso in forma gioviale o scherzosa è probabilmente quella di facilitare il ritenere a memoria questo vocabolario piuttosto ampio di frasi fatte. La forma gong per « cane » nel linguaggio lokele — « cane gigante, piccolino che abbaia kpei kpei » — è un diminutivo affettuoso dello stesso tipo di quello che in lingue europee trasforma Jack in Jackie e Giovanni in Giannino. Lo stesso dicasi per la forma gong di « capra » e di « legna da ardere » e, analizzandola, la forma gong di « manioca » (« ciò che rimane sul terreno incolto sono i pezzetti lasciati dopo che è avvenuto il grosso raccolto »). Dan Crawford, che lavorò nel Congo come missionario, ha descritto con affetto questo aspetto del gong mondo: «Non un noioso... rataplan ma un tamburo a cui
piacciono pure i pettegolezzi; un tamburo che può anche raccontare una barzelletta. Spesso... potete udire... uno scoppio di risa. [Gli ascoltatori] stanno ridendo per il piacevole senso di umorismo del sig. Mondo alla distanza di ieci chilometri ». Le frasi ci insegnano pure molte cose sulla cultura della gente che le ha inventate. La maniaca si conserverà nell'orto per un lungo tempo sino a che ve ne sarà bisogno. Poiché i grappoli di banane divengono pesanti è necessario sostenerli con delle bacchette affinché non pieghino il debole fusto della pianta e non marciscano al contatto del suolo. I leopardi sono pericolosi anche quando la stalla della capra ha delle porte resistenti; possono lacerare il tetto di paglia per arrivare alla loro preda. Il trasmettitore lokele da secoli sta facendo ciò che gli studiosi occidentali di mezzi di comunicazione hanno riconosciuto essenziale solo alcune decine di anni fa. Egli utilizza il principio della ridondanza. Nel 1928 Ralph V. L. Hartley dei Bell Telephone Laboratories, il quale stava studiando la intellegibilità delle comunicazioni per telefono, espresse il rapporto fra la quantità di informazione contenuta in un messaggio  (H) ed il numero dei segnali impiegati (N) sul totale disponibile (S) nella equazione H = N log2 S. Se usiamo l'equazione di Hartley per determinare quante sillabe lokele bisogna trasmettere, considerando che il numero totale delle sillabe disponibili nel linguaggio sono 266 (133 combinazioni vocale- -consonante in tono alto e 133 in tono basso), ci sembra chiaro che per ciascuna sillaba di una parola occorrono circa otto sillabe del linguaggio gong. Se il lettore esamina le frasi da me citate, si accorgerà che i trasmettitori lokele generalmente non hanno sbagliato di molto, anche se ogni tanto una frase può eccedere il rapporto di Hartley. I lokele, in ogni modo, raggiungono la richiesta ridondanza semplicemente ripetendo la stessa frase. A causa di questa ripetizione anche dei messaggi parlati relativamente brevi richiedono vari minuti per essere trasmessi. La necessità di costruire una frase gong molto più lunga della parola stessa si riflette nei nomi gong dati sia a individui che a villaggi. Per esempio, il villaggio di Yakusu, a circa 25 chilometri a ovest di Kisangani, ha il nome gong di afaKA kolaaLEtnbu, frase che probabilmente deriva dai nomi di due antichi abitanti del villaggio. Gli abitanti di Yaalufi, vicino al centro agricolo di Yangambi, si vantano a causa del loro nome. gong, di essere « gli anziani di Yaokanja » (nome geografico della regione centrale lokele); gli abitanti di Yatuka, che abitano all'incirca a 85 chilometri a nord di Yaalufi, sono fieri di usare il nome gong di « padroni del fiume ». Talvolta i nomi gong commemorano degli eventi storici. Per esempio, gli abitanti di Yatuka dimostrarono di essere i veri padroni del fiume in occasione di una sfida degli abitanti di un villaggio vicino, dislocato sulla stessa sponda del fiume. A quel tempo il nome gong del villaggio sfidante era « essi avevano il rimedio per combattere la sventura ». Dopo aver vinto la battaglia, gli abitanti di Yatuka costrinsero il villaggio sconfitto a spostarsi sulla sponda opposta, dove il suo appellativo cambiò in « lo spirito cattivo non ha amici o famiglia ». Quando vengono trasmessi nomi personali, l'intera versione può rispecchiare fedelmente il nome parlato, oppure può identificare l'individuo attraverso dei riferimenti ai suoi genitori, oppure ancora può essere del tutto immaginario. Un assistente medico da me conosciuto a Kisangani era orfano, e il suo nome era Lotika, che significa orfano in lingua lokele. Il suo nome gong spiegava in termini pittoreschi cosa sia un orfano: « il bambino non ha padre né madre, chiede il cibo in elemosina nella capanna della comunità ». Un altro giovane dello stesso villaggio aveva, invece, un nome puramente immaginario: « non ridete davanti alla pelle scura, perché ognuno ne ha una ». T ra la gente dell'alto Congo l'uomo che si sposa è del luogo. Tutti i bambini di una famiglia poligama hanno, quindi, Io stesso nome paterno. Madato che le madri raramente provengonodallo stesso villaggio, quando si vuole identificare un individuo attraverso riferimenti paterni e materni, si aggiungono al nome gong il prenome del padre e il nome del villaggio dal quale proviene la madre. Un altro assistente medico di mia conoscenza di Kisangani, John Litumanya, godeva di uno di questi imponenti nomi gong suddiviso in tre parti. « Spirito malvagio con lancia » era il suo nome gong. « Figlio del cobra sibilante » era il nome gong di suo padre e « del villaggio di Middle Yafolo » si riferiva al luogo di origine della madre. Litumanya aveva ereditato il suo nome gong dal nonno. I gong stessi possono avere dei nomi personali; colui che trasmette batterà il nome del gong all'inizio e alla fine del messaggio. Oggigiorno i villaggi del Congo stanno diminuendo perché la gente giovane si trasferisce in centri più grandi. Una conseguenza di questo fenomeno è che molti dei nomi dati ai gong hanno un sapore amaro. Il clan yamenawendua del villaggio Yaneomu ha dato questo appellativo al suo gong gli uccelli non rubano da una persona sprovvista di cibo ». I due grossi geo neg dei bakama di Bandio sono chiamati noi mangiamo gli ultimi bocconi di cibo » e « orecchie mie, non ascoltate ciò che dice la gente » (un invito ad essere stoici quando gli altri clan si prendono gioco del loro numero ridotto). Non tutti gli abitanti dei villaggi sono cosi amareggiati. Il nome del gong del clan yabita di Yalemba è « non si può tenere una zucca vuota sotto la superficie del fiume », e il gong dei yamongbanga di Bokondo dichiara la identificazione da parte del clan con un albero noto per la sua corteccia spinosa: a l'albero bolongo non viene battuto con la mano per paura delle sue spine ». Il clan bogula dello stesso villaggio chiama il suo « l'elefante maschio agita la sua proboscide ». Le frasi bitonali del linguaggio gong possono venire trasmesse anche da altri strumenti. Per esempio, i cacciatori portano con sé dei piccoli corni, generalmentefatti di corno di antilope, matalvolta anche di avorio. I corni hanno un foro all'estremità più stretta e un secondo foro su un lato, dal quale soffiail cacciatore. Coprendo oppure no il foro della estremità con la mano il cacciatore produce i necessari toni alti e bassi. La portata di questi corni è di un chilometro e mezzo o più. Anche la voce umana è adoperata per trasmettere delle frasi di due toni alla distanza di un chilometro e mezzo circa, particolarmente vicino ad un fiume nel fresco della sera quando il suono della voce ha una maggior portata. I pescatori lokele che stanno rientrando a casa annunciano il loro successo con grida molto prima di raggiungere il villag—gio. Invece di us_are n_elle loro grida i toni alti e bassi, li sostituiscono con le sillabe ki o li per il tono alto nel linguaggio gong e con ke o le per quello basso. I pescatori di Yalemba usano lo stesso metodo, ma cambiano in ko e go le sillabe a tono alto e in ku e gu per quelle a tono basso. Sebbene sia più giusto parlare, per la sola regione dell'alto Congo, di linguaggi gong piuttosto che di linguaggi di tamburi, strumenti ricoperti di pelle vengono spesso usati in molte altre parti dell'Africa per la trasmissione di messaggi. Gli ashanti, per esempio, usano a questo fine due tamburi: uno piccolo che riproduce le note alte e uno più grande per quelle basse; vengono chiamati marito e moglie ». Suonatori di tamburo spesso accompagnano nelle feste i capi ashanti, battendo parole di elogio su di un piccolo tamburo che tengono sotto il braccio. Il suonatore è capace di produrre due note sullo stesso tamburo perché il risonatore è a forma di clessidra. Aumentando o diminuendo la pressione del suo braccio sulle corde tese che vanno da un capo all'altro del tamburo egli può tendere o allentare la membrana e quindi alterare il tono dello strumento. Iracconti quasi incredibili delle grandi distanze percorse dai messaggi trovano una spiegazione nella prontezza con la quale coloro che trasmettono sono in grado di ricevere e di trasmettere l'un l'altro le notizie importanti. Come Henry Morton Stanley dichiara nel suo diario, il suo passaggio lungo il Congo era annunciato dai tamburi lokele. t certo che i messaggi importanti oggi viaggiano nella stessa maniera da un villaggio all'altro. Tuttavia, quando un messaggio arriva ad un confine oltre il auale inizia un'altra linqua non può più viaggiare se non viene tradotto. Questo non è poi cosí grave come si immagina. Molte famiglie che vivono in villaggi di confine hanno donne che provengono da tribù vicine, cosicché i loro figli crescono parlando sia la lingua del padre che quella della madre. Ne risulta che generalmente vi sono molte persone bilingui in grado di trasmettere i messaggi tradotti. In aggiunta ai tamburi di pelle, ai corni e alla nuda voce, qualche volta vengono usati gli zufoli. I bambini sovente si costruiscono da sé gli zufoli e trasmettono parole di elogio davanti alla casa di qualche personaggio importante, aspettandosi poi una ricompensa. Il fischiare con la bocca serve a trasmettere segretamente dei messaggi all'apparire di uno straniero. Coloro che hanno viaggiato in Africa avranno osservato che arrivando in un villaggio all'apparenza deserto hanno udito dei fischi provenire dalle case vuote o dalla vicina foresta. Lo straniero viene attentamente descritto alla comunità da gente che osserva il suo passaggio attraverso il territorio. Una volta non vi erano segreti sul linguaggio gong; anzi era un fenomeno pubblico alla portata di tutti. Era una parte cosí integrale della cultura tribale che quando chiesi delle informazioni in materia a trasmettitori lokele, questi credevano che anche noi europei avessimo simili strumenti. La sola volta che incontrai qualche difficoltà fu quando chiesi a un pescatore lokele il suo nome gong. Egli rispose che me lo avrebbe detto se io avessi rivelato il mio. Quando gli dissi che non avevo un nome gong, mi rispose che ero un bugiardo. Convinto che io mi rifiutassi di passargli l'informazione, non mi disse mai il suo nome. Oggigiorno, a causa degli spostamenti della popolazione, sempre meno sono giovani africani che sono pratici di questo linguaggio. In un tipico villaggio dell'alto Congo i gong parlano ogni mattina e ogni sera, mentre nella città di Kisangani i gong sono molto rari e non si sentono quasi mai. Uno dei pochi trasmettitori di Kisangani, il cui piccolo gong talvolta si può sentire attraverso la città, mi ha confessato con dispiacere di non ricordarsi più tutte le frasi che suo padre conosceva e trasmetteva. Ho il sospetto che sia arrivato il momento in cui linguisti e etnologi interessati al problema debbano iniziare a registrare questi eccezionali linguaggi prima che essi spariscano per sempre.

 

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24.09.2012 01:28

La mappa non è il territorio: da Korzybski all'esperimento di Lyle Brenner, Derek Koehler e Amos Tversky

Alfred Habdank Skarbek Korzybski (3 luglio 1879 - 1 marzo 1950) è stato un filosofo e scienziato polacco. La sua opera è ricordata in merito allo sviluppo della teoria della general semantic. Egli ha sostenuto che la conoscenza umana del mondo è limitata dal sistema nervoso e dalla struttura del linguaggio.

Per Korzybski le persone non hanno un accesso diretto alla conoscenza della realtà, ma piuttosto accedono a percezioni ed a un insieme di credenze che la società umana ha confuso con la conoscenza diretta della realtà. Per questo motivo Korbyzki è arrivato alla teorizzazione della maetafora della mappa. L’uomo deve rendersi conto che la propria mappa mentalle, che ciascuno costruisce per comprendere la realtà che lo circonda, è solamente un paradigma di fenomeni ben più complessi. Egli soleva ripetere che "La mappa non è il territorio", infatti i nostri sensi riescono a concepire la realtà solo in modo parziale perché funzioniamo in maniera tale che la nostra mente è soggetta a distorzioni, generalizzazioni e cancellazioni. Anche il linguaggio è soggetto a questi intoppi, visto che può indurre o auto indurre mappe limitate, generiche e dalle scelte molto limitate. Fin quando le persone non prenderanno coscienza di questo e finquando non faranno in modo di apliare le proprie mappe, i loro comportamenti saranno limitati e così anche le proprie scelte. Saranno dominati dai preconcetti e dagli stereotipi e luoghi comune che hanno assunto come una guida possibile.
Tutto questo che abbiamo esposto Korzybski lo aveva teorizzato nella sua opera monumentale dal titolo “Science and Sanity: An Introduction to Non-Aristotelian Systems and General Semantics” pupplicata nel corso del 1933. Da allora molti, in maniera tacita, hanno attinto a quest’opera, operando per certi versi un vero e proprio saccheggio. Da molti è stata anche criticata, ma a distanza di circa 80 anni le basi teoriche prendono ancora più vigore da una dimostrazione sperimentale.
Nel  1996 fu condotto uno studio con lo scopo di scoprire in che modo le persone giungono a una conclusione in base a informazioni limitate. Già in uno studio pregresso, altri scienziati avevano dimostrato che le persone sono “assolutamente insensibili sia alla quantità sia alla qualità delle informazioni da cui hanno origine impressioni e intuizioni”, perciò i ricercatori, i cui nomi erano Lyle Brenner, Derek Koehler e Amos Tversky, sapevano già che noi esseri umani non siamo particolarmente esperti nel calibrare i pro e i contro. Ma fino a che punto? Quanto siamo limitati nel valutare tutti i fatti? Queste erano el domande a cui lo studio voleva dare una risposta. Brenner e i suoi colleghi presentarono a un gruppo di volontari alcune ipotetiche cause civili per querela. Tutti i partecipanti ricevevano alcune informazioni di base sugli eventi che avevano portato al processo; successivamente, alcuni ascoltavano gli argomenti dell'avvocato di una delle parti in causa, altri quelle dell'avvocato dell'altra parte. Un ultimo gruppo, infine, essenzialmente una giuria simulata, ascoltava entrambe le versioni.
L'elemento essenziale dell'esperimento consisteva nel fatto che i partecipanti fossero totalmente consapevoli della situazione: sapevano benissimo di aver sentito solo una delle due parti coinvolte, oppure entrambi. Questo però non impedì a chi aveva ascoltato la versione di una sola parte di esprimere un giudizio con più sicurezza - e più parzialità - di chi aveva sentito entrambe le campane. Ovvero: saltavano alle conclusioni dopo aver ascoltato solo una versione dei fatti pur sapendo che ne esisteva un'altra.
Brenner, Koehler e Tversky scoprirono che invitando i partecipanti a prendere in considerazione l'altra versione la loro parzialità diminuiva: ma non scompariva del tutto. Lo studio dimostrò quindi che le persone non solo sono portate a saltare alle conclusioni dopo aver sentito una sola versione dei fatti, ma è assai probabile che continuino a farlo anche quando hanno a disposizione informazioni aggiuntive che suggerirebbero una differente conclusione. Ne conseguiva, osservarono un pò pessimisticamente gli scienziati, che “le persone non compensano a sufficienza le informazioni mancanti anche quando è assolutamente evidente che quelle che hanno sono incomplete”.
Ecco allora spiegato il motivo per cui spesso gli uomini appaiono limitati e parziali nelle loro mappe, non compensano a sufficienza le informazioni mancanti, ma la cosa buona, come sosteneva già Korzybski, è che quando si fanno notare questa limitazione, le mappe cominciano ad ampliarisi.
 

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20.09.2012 09:16

Generalizzazioni linguistiche e quantificatori universali

Qualsiasi scambio informativo è interessato da un dare ed un richiedere informazioni. Tale atto presuppone che tra il parlante e l'ascoltatore ci siano dei concetti che l'altro già sa e quindi risulta superfluo ribadirli all'interno dell'atto comunicativo. Per questo si presume o si da per scontato che l'altro già sia a conoscenza di quello a cui i mi riferisco in maniera generica e non approfondita.
Per esempio:

Maria: Ciao. Dove te ne vai di bello?

Flavia: Penso che andrò a Panorama. Ho la dispensa con le ragnatele!

In questa interazione i due interlocutori sicuramente si conoscono già e si sono già parlati precedentemente, o almeno devono appartenere allo stesso contesto geografico e culturale. Infatti la risposta alla domanda: "Dove vai di bello?" Presuppone delle conoscenze di background comuni; l'uso della metonimia "Penso che andrò a Panorama" in cui è nominato il nome del negozio a posto del negozio, presuppone che l'interlocutore sia a conoscenza che nei paraggi ci sia un grande magazzino che si chiama Panorama. Poi l'espressione metaforica successiva: "Ho la dispensa con le ragnatele" presuppone che l'ascoltatore decodifichi tale asserzione dandogli il senso: "Ho la dispensa vuota". Dare per scontato queste conoscenze, in una conversazione, è un presupposto conversazionale.

  Pensate se invece questo scambio comunicativo fosse avvenuto tra due persone di provenienze diverse, per esempio un italiano ed un inglese di passaggio, con una dimestichezza approssimativa della lingua italiana. Molto probabilmente avrebbe capito: "Penso che andrò a vedere il panorama", supponendo di non aver fatto in tempo a capire o a sentire il verbo "vedere", ma uno che "va" e dopo c'è la parola "panorama", sicuramente va a vedere o per meglio dire ammirare il "panorama"! Ecco che nell'inglese vi è un presupposto conversazionale differente che rende la conversazione non pertinente. Tralasciamo il resto del messaggio perché "avere la dispensa con le ragnatele" farebbe pensare all'inglese che si trova di fronte ad un italiano doc, che invece di pulire la sua dispensa, se ne va ad ammirare il panorama!

  Questi concetti, che a primo acchito possono sembrare semplici banalizzazioni, hanno invece un'importanza non trascurabile, specialmente quando coinvolgono fenomenicamente la persona ed il suo mondo interiore. Spesso anche quando dialoghiamo con noi stessi, usiamo generalizzazioni e presupposti conversazionali che possono creare degli stati non pertinenti con quelli che invece sarebbero le nostre aspettative e realizzazioni.

Quante volte ci siamo detti o abbiamo sentito dire:

        Mi va sempre tutto male!

Ecco che siamo di fronte ad una generalizzazione che da per scontato che proprio tutto in ogni istante della mia vita non sia accaduto così come io volevo. Ognuno di noi sa benissimo che non proprio tutto può essere da sempre non andato per il verso giusto, almeno una volta, ma anche più di una, sarà capitato qualcosa di buono? Per questione di coerenza, se facciamo notare a qualsiasi persona che sostiene questa affermazione che è troppo generalizzante e sta ingannando in maniera negativa se stesso, questi prenderebbe coscienza che il suo modo di pensare è riduttivo e quindi sarebbe portato a cambiare immediatamente stato. Basterebbe fare qualche domanda del tipo:

 

Sempre?... Proprio tutto?

 

In questo modo si porterebbe la persona a prendere coscienza che pensare in termini così generici ed universalistici non corrisponde alla verità delle cose, bensì è una costatazione che sta dentro di noi ma che non esiste nel mondo esterno.

 

G. D.S.

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19.09.2012 12:08

La lingua influenza il pensiero o è il pensiero ad influenzare la lingua?

Una questione centrale che da decenni è al centro del dibattito di diverse scuole di linguistica è quella che riguarda il fatto se sia la lingua a influenzare il pensiero o è il pensiero ad influenzare la lingua. La prima affermazione è nota come relativismo linguistico, la seconda come universalismo linguistico.

 Già il filosofo inglese John Locke notava che in una lingua "ci sono un gran numero di parole che non hanno nessun corrispettivo con quelle di un'altra lingua", questo perché le parole sono il risultato di costumi e modi di vivere delle persone. Da questo deriva che ogni lingua riflette una diversa visione del mondo ovvero come sosteneva il romanticismo tedesco (cfr. Johann Gottfried Herder e Wilhelm von Humboldt), una diversa Weltsicht. Questa concezione è stata poi portata in America dal fondatore dell'antropologia culturale e linguistica, Franz Boas. In America la sua scuola venne a contatto con lingue e culture particolarmente diverse da quelle europee. Vi erano grandi differenze già se si considerava la sola area lessicale, infatti Edward Sapir (Cultura, linguaggio e personalità, 1972, p. 29 [ed. or. 1949] notava che "delle distinzioni che a noi sembrano inevitabili possono essere completamente ignorate in lingue che riflettono un tipo di cultura completamente differente, mentre tali lingue insistono, a loro volta, su distinzioni che sono del tutto incomprensibili per noi". Già negli anni trenta era stato osservato da Luria e Vygotsky, che le comunità autoctone lapponi della Norvegia settentrionale, avevano un vocabolario particolarmente sviluppato per indicare per esempio razze di renne, oppure la renna di un anno, di due, di tre, di quattro, di cinque, di sei, di sette anni; venti parole per indicare il ghiaccio e 11 per il freddo; 41 per la neve nelle sue diverse forme; 26 verbi per indicare la congelazione e il disgelo, ecc. (cfr.Aleksandr Lurija, Lev Vygotskij,"La scimmia, l'uomo primitivo, il bambino" 1987, p. 99).

  Quando gli antropologi iniziarono ad interessarsi agli usi e ai costumi dei nativi americani, si imbatterono nei loro sistemi linguistici, questo incontro determinò un cambio di paradigma nello studio e nella visione delle lingue. Alcune lingue erano prive di categorie familiari alle lingue europee come nome e verbo, nomi di massa e numerabili, tempo verbale e caso, ma mostravano un gran numero di distinzioni che risultavano esotice agli occhi dei linguisti occidentali. Per esempio avere funzioni linguistiche che denotano l'accadimento di un evento a Nord o a Sud, a Est o a Ovest, il tipo di conoscenza che un parlante trasmette, se è frutto di un osservazione diretta, deduzione o sentito dire, o la visibilità o meno di una cosa. Sapir fece notare che per esempio il Nootka per dire "la pietra cade" non ha nessun sostantivo che si equivalga a "pietra", ma usa solamente una forma verbale composta da due elementi, uno che viene applicato ad un oggetto o una pietra che compie un movimento ed un secondo per la direzione verso il basso. Così la traduzione letterale suonerebbe "pietra sotto" (intendendo pietra come verbo alla terza persona singolare diciamo di un verbo *"pietrare") tradotto in italiano "la pietra cade" (cfr.  David G. Mandelbaum (ed.), "Selected Writings of Edward Sapir in Language, Culture and Personality", 1958, pp. 157-159).

    Alla luce di esempi come questo è difficile non trarre la conclusione che le diverse categorie grammaticali, delle diverse lingue, inducano i parlanti di ciascuna lingua a concepire il mondo in maniera diversa. Questo modello di comprensione è noto come "ipotesi di Sapir-Worf" (fu proprio Benjamin Lee Worf ad usare per primo il termine "relativismo linguistico"). Tale ipotesi ha subìto numerose critiche da una nutrita schiera di studiosi che non condividevano affatto che una lingua potesse influenzare il pensiero e una delle prove che portavano a riguardo era che nessuno aveva fornito prove plausibili che facessero avallare tale ipotesi. Recentemente però gli studi di Choi e Bowerman (Choi, S., Bowerman, M., "Learning to express motion events in English and Korean: The influence of language-specific lexicalization patterns", 1991) e Bowerman (Bowerman, M.," The origins of children's spatial semantic categories", 1996), in riferimento al linguaggio infantile, hanno dimostrato che bambini di 20 mesi, età in cui iniziano a parlare, sia di lingua inglese che di lingua coreana, reagiscono in modo abbastanza differente ad operazioni specifiche richieste. L'esperimento fa ritenere che la diversità di risposta nella svolgere le operazioni richieste ai bambini, appartenenti ai due gruppi linguistici, è dovuta proprio al diverso schema del linguaggio di appartenenza.

    In un altro studio condotto da John Lucy sono mostrate le differenze peculiari del modo in cui gli anglofoni e gli Yucatec Maya elaborano le informazioni su oggetti concreti. I parlanti inglesi prestano più attenzione al numero rispetto agli Yucatec, infatti tendono a indicizzare e classificare tramite la forma, mentre gli Yucatec tendono a classificare tramite il materiale di cui sono composti gli oggetti. L'inglese infatti ha dei marcatori di numero, mentre lo Yucatec ha dei classificatori che attraverso degli affissi marcano i nomi come membri di specifiche categorie (cfr. "Language Diversity and Thought", 1992).

 

 

 

        Universalismo linguistico

 

    Questa corrente di pensiero parte dal presupposto che il pensare umano si esplichi nello stesso modo in tutte le persone del mondo. Sebbene la differenza tra le lingue sia molto notevole esistono degli universali comuni a tutte le lingue del mondo. Filosofi come Pascal, Descartes, Arnault e Leibniz li hanno chiamati "idee semplici", mentre i linguisti moderni li chiamano "universali semantici".
    Ne hanno individuati circa 60 e fungono da concetti universali, ovvero i mattoni base per comporre una miriade di significati complessi.

 

Primitivi semantici universali
Sostantivi IO, TU, QUALCUNO, GENTE, QUALCOSA, CORPO, PAROLA
Elementi determinanti QESTO, LO STESSO, ALTRO, UNO, DUE, ALCUNI, MOLTO, TUTTO
Verbi di esperienza SAPERE, PENSARE, VOLERE, SENTIRE, VEDERE, UDIRE
Azioni e processi DIRE, FARE, AVVENIRE, MUOVERE
Esistenza e possesso ESSERCI, AVERE
Vita e morte VIVERE, MORIRE
Valutazione e descrizione BUONO, CATTIVO, GRANDE, PICCOLO
Concetti spaziali DOVE, QUI, SOPRA, SOTTO, VICINO, LONTANO, DENTRO, LATO
Concetti temporali QUANDO, ORA, PRIMA, DOPO
Elementi relazionali TIPO DI, PARTE DI, MOLTO, PIU, COME
Elementi logici SE, PERCHE, NO, FORSE, POTERE

 

Bisogna però tenere presente che il discorso potrebbe apparire troppo semplicistico se ci si ferma a esplicare la complessità concreta che si realizza nelle lingue parlate. Infatti alcune volte un unico primitivo semantico può essere espresso da parole differenti come in italiano "altro" e "ancora" (dammi dell'altro o dammene ancora). Poi in alcune lingue gli equivalenti dei primitivi semantici potrebbero essere degli affissi o sintagmi fissi più che parole. Ancora poi dobbiamo fare attenzione che le parole hanno di solito più di un significato e solo uno equivale al primitivo semantico.

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14.09.2012 15:52

L’alba della civiltà ellenica: Omero ed Esiodo

estratto da: "DAL MYTHOS AL LOGOS: IMMAGINI E MODELLI DEL MONDO"

In corso di stampa

Giovanni De Santis

 

Diverse centinaia di anni prima che in Grecia fosse canonizzato ed epistemologicamente determinato il metodo logico-razionale, le testimonianze letterarie più arcaiche giunte sino a noi, ci mostrano i primi tentativi d’invenzioni protologiche. Naturalmente però riguardo ai poemi omerici, si può parlare solo genericamente di una propria weltanschauung, infatti queste opere non presentano una visione del mondo esaustiva, coerente ed organizzata. Sparsi all’interno della narrazione sono introdotte incidentalmente alcune idee che non assolvono ad una preoccupazione di tipo pratico o speculativo, bensì hanno una funzione prettamente drammatica, funzionale alla narrazione[1]. Quale fosse la concezione cosmologica di Omero la si può desumere solamente analizzando gli elementi sparsi qua e là all’interno della narrazione. Così apprendiamo che per grandi linee il cosmo omerico è diviso in tre parti: Cielo, Terra-Ade, Tartaro; Cielo e Tartaro sono equidistanti da un centro, Terra e Ade, anche se non è chiaro se in questo centro la Terra e l’Ade sono congiunti o separati. Attorno alla terra scorre il fiume Oceano, da cui sgorgano tutti i fiumi e tutti i mari, tutte le sorgenti e tutti i pozzi profondi[2]. Sotto la terra forse si trova l’Ade, la dimora dei morti e ancora più giù vi è il Tartaro, «tanto lontano dall’Ade quanto la terra dal cielo».[3] I personaggi di Omero osservano il cielo notturno e si accorgono del ruotare ciclico delle costellazioni di cui conoscono i nomi: le Pleiadi, le Iadi, Orione, l’Orsa, della quale si dice che è l’unica a non tramontare mai, «è la sola a non bagnarsi mai nell’oceano»[4]. H. L. Lorimer fa notare che l’attenzione di Omero è rivolta più alle stelle individuali, mentre Esiodo, nelle sue opere, mostra più interesse per le costellazioni. Questo è dovuto al fatto molto probabilmente che Omero rappresenta una società rurale, il cui sostentamento proviene prettamente dall’agricoltura e non ha nessun interesse nella complicata determinazione delle costellazioni. Invece in Esiodo vi è l’impronta di una società più complessa, in cui le costellazioni servivano ad orientarsi nella navigazione.[5]  Sia nell’Iliade sia nell’Odissea vi sono anche particolareggiate descrizioni di molti fenomeni naturali che fanno da sfondo alla narrazione. In entrambi i poemi, tuttavia, al centro dell’azione drammatica non vi è il rapporto tra l’uomo e la natura come appare, bensì tra gli uomini e gli dei che hanno determinato il mondo così com’è. I personaggi di queste opere vivono in un mondo in cui l’alternarsi delle costellazioni è governato da un ordine stabilito. Il mondo circostante quindi mostra numerose manifestazione di ordine e regolarità, sconvolti allorquando subentrano i capricci degli stessi dei.

Il primo testo di rilievo in cui ci imbattiamo è la Teogonia di Esiodo. Si ritiene tale opera il primo documento che offre una sistematica ed organica visione d’insieme del pantheon greco, ma bisogna precisare che Esiodo sicuramente non sarà stato il primo a sistematizzare una teogonia, ma a quanto pare fu il primo a metterla per iscritto[6].  Di là dal contenuto puramente tecnico e delle varie generazioni divine, la cosa che maggiormente colpisce il lettore, è che il poeta di Ascra, fin dall’inno introduttivo in cui invoca le Muse, fa della sua narrazione un veicolo di verità cosmiche. Così Esiodo non ritiene l’arte poetica un semplice mezzo ricreativo, ma un’arte che può aiutare gli uomini a capire la natura e l’universo. Le muse sono coloro che permettono all’aedo di accedere ad una conoscenza vera e di fuggirne una falsa, sono loro le garanti dell’autenticità del sapere trasmesso[7]. Non sempre però la poesia è veicolo di verità eterne, a volte il poeta è soggiogato dall’inganno e dall’illusione da parte delle stesse Muse, così che il suo canto può anche diventare veicolo di falsità. L’imperfetta o addirittura falsa concezione che gli uomini hanno della divinità, forse per colpa di cattivi poeti male ispirati dalle Muse, cagiona il traviamento morale, ma nel caso di Esiodo, la teofania incarnata dalle muse, rivela al poeta l’unica realtà esistente e degna di essere oggetto del canto «le cose che sono, che saranno, che furono»[8] e cioè la conoscenza del presente, del futuro e del passato. Per il sistema etico esiodeo la rivelazione divina della verità spetta ad un dio che arbitrariamente e capricciosamente può decidere a chi concederla e a chi no. Di conseguenza, il ruolo sociale dell’aedo si assimila a quello dell’oracolo e le sue parole, al pari dei vaticini, svolgono un compito funzionale per la società. A questo punto però è d’uopo domandarsi quanto sia attendibile ciò che le Muse riveleranno ad Esiodo, visto che per loro stessa ammissione non sempre garantiscono la sincerità. Esiodo comunque mostra una devozione cieca a ciò che gli rivelano le muse, le fautrici della sua ispirazione poetica[9]. M. Detienne cerca di risolvere il problema individuando all’interno della Theogonia una distinzione tra verità e memoria da un lato, elementi positivi e “chiari”, e menzogna e oblio dall’altro, elementi negativi e “scuri”. Verità e memoria vengono quindi ad equivalersi al pari dei loro contrari, ed il racconto esiodeo, nato per volontà divina non può che essere autentico. Infatti se aletheia etimologicamente vuol dire “assenza di oblio” e se le Muse sono figlie di Mnemosine (personificazione della memoria), essendo Esiodo un devoto cantore delle Muse, esse non possono che raccontargli la verità[10]. Lo svolgersi degli accadimenti protologici quindi, non sono visti direttamente dal poeta, ma sono le muse a trasmettergli la loro conoscenza, lasciando fuori qualsiasi partecipazione della coscienza dell’aedo ad eccezione della sua memoria. La memoria del poeta ispirato è una memoria sacralizzata, diversa da quella dell’uomo comune, è un’onniscienza di carattere divino attraverso cui il poeta entra in contatto con il mondo delle divinità e riesce a decifrarne l’impercettibile. Il principio dogmatico su cui poggia la veridicità degli argomenti cantati, risiede tutto in una rivelazione verbale. Così come nei poemi omerici, in Esiodo le Muse sono collegate alla voce ed al canto[11]; la loro azione specifica è quella di «dire (léghein)», «cantare (gery’ssasthai)», ma cosa dicono, cosa cantano? Cantano le risposte alle domande di senso della vita che l’uomo si pone; a loro modo queste figure interpretano un medium conoscitivo tra il mondo divino e quello umano.

Molti si sono domandati se si tratta di un artificio poetico o di una vera e propria esperienza sensoriale vissuta dagli aedi. Questo incontro di Esiodo con le Muse ha posto molti interrogativi sull’interpretazione del significato della scena. M. L. West fornisce quattro possibili interpretazioni: a) ascrivere la scena in un’ambientazione onirica, b) considerarla come un’esperienza religiosa, c) un puro artificio letterario, d) una semplice metafora per esprimere una propria intuizione[12]. Dal canto suo invece E. R. Dodds vede in questo incontro di Esiodo, una vera e propria esperienza religiosa d’incontro con il divino[13]. A sostegno di tale tesi egli propone un confronto con altri casi simili documentati nella storia della letteratura greca. Erodoto (VI, 105) racconta l’episodio accaduto a Filippide, il quale mentre si recava ad Atene, gli apparve il dio Pan in persona che gli ordinò di rimproverare gli ateniesi per la scarsa pietas che gli dimostravano. Oppure ancora più cogente è la vicenda di Archiloco, così com’è riportata nell’iscrizione di Mnesiepes (III sec. a.C.)[14]. Vi si narra che il giovane Archiloco, inviato dal padre in campagna perché scegliesse una vacca da vendere l’indomani al mercato, s’imbatte in un gruppo di donne che tornavano dai campi. Dopo uno scambio di battute mordaci le donne gli chiesero se si stava recando in città per vendere l’animale. Alla risposta affermativa di Archiloco le donne gli promisero che gli avrebbero in futuro reso onore e scomparvero assieme alla giovenca. Ancora scosso da quello che gli era accaduto, il giovane vide a terra davanti a lui una lira. In seguito interpretò la vicenda come una specie d’iniziazione poetica e quelle donne altri non erano che le Muse sotto mentite spoglie.[15] Ma non solo nella letteratura greca possiamo trovare spunti, se andiamo uno sguardo alle scritture ebraiche, rimaniamo stupiti nel trovare un episodio simile alla vicenda di Esiodo. Nel libro dell’Esodo troviamo un altro pastore come Esiodo, Mosè a cui Dio si rivela attraverso la visione di un roveto ardente. Il parallelismo è presto fatto: Esiodo che pascola le pecore sul monte Elicona e Mosè che pascola il suo gregge sul monte Oreb (Es.3,1), in un caso avviene l’epifania delle Muse, nell’altro quella di JHWH. J. Jaynes cerca di dare una spiegazione plausibile a questi fenomeni epifanici; egli sostiene che fino a ca. il 1000 a.C. gli uomini non possedevano una mente cosciente nel senso moderno del termine ma erano guidati da voci interiori che erano attribuite agli dèi. Nella sua opera, «The Origin of Consciousness in the Breakdown of the bicameral Mind», J. Jaynes presenta indizi ricavati dall’archeologia e dai libri più antichi (Iliade, Odissea, Bibbia). Secondo questa teoria la prova di questo primitivo «stato di coscienza» sarebbe da ricercarsi nella schizofrenia, un residuo vestigiale di quest’antica struttura della mente. Secondo J. Jaynes la musica stessa che accompagnava i componimenti, fungeva da stimolante sulla corteccia dell’emisfero destro[16]. Infatti la comune derivazione delle due parole doveva essere particolarmente sentita dagli antichi se Platone, nel Cratilo, fa dire a Socrate che il nome «Muse» e tutta l’ars musica derivano da moo^sthai, cioè zetei^n, “cercare” (Cratyl. 406 a).

Comunque di là da qualsiasi teoria, possiamo correttamente affermare che la Teogonia di Esiodo sia la più antica testimonianza della prima forma di teologia sviluppatasi presso le popolazioni elleniche. Questa non tratta episodicamente delle vicissitudini delle varie divinità, bensì si sviluppa secondo un processo genealogico che accomuna le varie entità divine attraverso un génos comune.

Esiodo, come abbiamo già visto, dopo l’invocazione alle Muse Eliconie[17] ed alle Muse Olimpie[18], tutrici degli aedi, inizia a cantare la genealogia divina. Tutto ha inizio con Chaos, poi c’è «Gaia dall’ampio petto che generò Urano stellato, simile a sé perché l’avvolgesse tutta intorno e fosse la sede sicura dei beati per sempre»[19]. Dall’unione di Gaia ed Urano avrà vita una lunga progenie di figli tra i quali Oceano «dai gorghi profondi», Rea, i ciclopi «dal cuore superbo», i giganti centimani Cotto, Briareo e Cige e per ultimo, Kronos «dai torti pensieri». Tutti quelli però che nascono dall’unione di Gaia ed Urano sono presi in odio dal padre che li costringe a rimanere nel ventre della sua sposa. Questa allora, non riuscendo a sopportare così lancinante dolore, pensa di tramare un piano ingannatore nei confronti di Urano. Fabbrica una falce e la offre ai suoi figli per vedere chi sarebbe stato disposto a vendicarla. Solamente Kronos risponde all’invito della madre, la quale prepara l’agguato e gli affida la falce vendicatrice. «Venne, portando la notte il grande Urano, e attorno a Gaia, pieno di desiderio si distese ovunque. Così dal luogo dell’agguato uscì fuori il figlio con la mano sinistra e con la destra, impugnata la falce grande e terribile, tagliò potentemente i genitali del padre e li gettò via lontano, indietro»[20].

       Ora il posto di Urano, evirato, è preso da Kronos che sposa Rea la quale gli partorirà: Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. Appena ciascuno di questi usciva dal ventre della madre, Kronos lo divorava, «escogitava questo affinché nessuno fra gli illustri figli di Urano ottenesse il potere regale. Infatti aveva saputo da Gaia ed Urano stellato che sarebbe stato vinto da un figlio»[21].  Accade allora che proprio quando Rea era prossima a partorire Zeus, questa pregò i genitori, Gaia ed Urano, di consigliarle come «nascondere il suo parto»[22]. Rea così avvolge una grande pietra come se fosse un infante e la da a Kronos per fargliela divorare. Zeus, sottratto all’imminente pericolo, è portato a Creta dove è allevato dalle Ninfe e nutrito dalla capra Amaltea. I vagiti del piccolo Zeus sono coperti dai Cureti che, danzando e percuotendo gli scudi con le spade impediscono a Kronos di udirli. Zeus crebbe e arrivò il momento in cui avrebbe aspirato a diventare «Signore del Kosmos» ma prima doveva battersi con Kronos ed i Titani che si erano messi al fianco di quest’ultimo. Dalla sua Zeus aveva Poseidone, Ade, i Ciclopi (dai quali ottenne la folgore) e i tre giganti centimani. La guerra dura dieci anni e si conclude con la vittoria di Zeus che esilia i Titani nel Tartaro.

Ancora però Zeus non può regnare senza pericolo; dopo che ebbe cacciato i Titani nel Tartaro Gea generò Tifeo, un mostro dalle sembianze spaventose, pronto ad insidiare il primato di Zeus. Ma il re degli dèi grazie alla folgore lo schianta nel Tartaro[23].

Continua il testo esiodeo:

«Così, dopo che gli dei beati ebbero compiuto la loro fatica e coi Titani conclusa di forza la loro disputa, allora invitarono a prendere il trono e il comando, per i consigli di Gaia, l’olimpio Zeus dall’ampio sguardo sugli immortali, e lui distribuì a loro gli onori (timàs)»[24].

 Oramai Zeus è theoo^n basileu’s[25],  “signore degli dèi” che, in quanto tale, si erge a garanzia di un kosmos che lui stesso ha realizzato grazie alla sua vicenda mitica.

Già l’Iliade conosce una divisione-attribuzione del mondo orientata in questo stesso modo. Infatti, durante un colloquio con Iris, Poseidone afferma:

«Tre sono i figli di Kronos che generò Rea: Zeus, io, e terzo Ade, il signore degli inferi. Tutto venne diviso in tre ed ognuno ebbe una parte. A me toccò di vivere sempre(a’iéi) nel mare canuto, quando tirammo le sorti, Ade ottenne l’ombra nebbiosa, Zeus si prese il cielo fra le nuvole e l’etere; rimangono comuni a tutti la terra e l’alto Olimpo»[26].

Nel passo omerico la parola chiave è “per sempre”, e sottintende che quanto è avvenuto tra le divinità della terza generazione è, in qualche modo, definitivo ed immutabile, pena il ripristino del chaos. Infatti Zeus rinuncerà ad unirsi con Teti una volta saputo da Prometeo che da quest’unione sarebbe nato un figlio che lo avrebbe spodestato. Nell’immaginario greco però questo non può avvenire: l’allontanamento di Zeus coinciderebbe con quello del kosmos e con il ritorno del Chaos.

Dal confronto con Omero vediamo che egli si rifà a delle tradizioni mitologiche che, in parte, differiscono dalla sistemazione esiodea, anche se non ne contraddicono il significato profondo. Per il primo Zeus è il più anziano dei tre fratelli e vede il suo albero genealogico legarsi ad una stirpe divina che proviene da entità acquatiche atipiche ed inoffensive, ovverosia Oceano e Teti; per Omero, infatti, Oceano è génesis pàvntessi[27], e la sua sposa è theo^n génesis[28]. In Omero poi Zeus condivide il potere assieme ai fratelli Ade e Poseidone (Il. XV, 187), mentre in Esiodo egli è eletto come capo assoluto da un’assemblea di dèi. Egli solo possiede il potere per imprigionare le forze caotiche primordiali.

Abbiamo visto come Esiodo, al contrario, si rifaccia ad una versione diversa del mito, nella quale Zeus è il più giovane dei suoi fratelli ed è rigidamente collocato come apice di una teogonia di tipo ascendente che si apre con una coppia, quella di Urano e Gaia, il cui spessore mitologico è sicuramente più rilevante. Esiodo, naturalmente, non è l’inventore di questo schema teogonico; esso è tipico di diverse mitologie di ambito anatolico e mesopotamico. Anche in queste regioni siamo di fronte alla riproposizione di «uno schema che parte da entità immani e precosmiche, le quali del cosmo saranno peraltro le fondamenta immancabili, allorché la vittoria degli dei giovani avrà per così dire reificate quelle medesime, primordiali presenze»[29].

La Teogonia racconta il progressivo istaurarsi dell’ordine, dalla nascita del Cosmo dal Caos iniziale, fino al suo assetto definitivo sotto l’egida di Zeus.  Ma come Esiodo intenda questa entità, quale sia la sua essenza e quale funzione svolga, non è ancora ben chiaro. Gli altri passi in cui appare non riescono ad illuminare la questione (cfr. vv. 700, 814), anche se il West ha voluto dare un senso a tal entità vedendo nella parola Chasma (v. 740) un sinonimo di Chaos[30]. Il Chaos non è da intendersi come lo intendeva la tarda classicità, un ammasso ancora indiviso e indistinto, rudis indigestaque moles[31] come lo definiva Ovidio. In Esiodo è piuttosto una voragine abissale che dà origine ad entità anch’esse di carattere abissale. Come abbiamo visto dal Chaos nacquero Erebo (l’Oscurità primordiale) e nera Notte. E dalla Notte nacquero l’Etere (lo spazio luminoso superiore) e il Giorno. La Notte poi dà inizio ad una generazione di entità negative fino alla Discordia e a questo punto si può considerare conclusa l’attività generativa del Chaos. Infatti in Esiodo il Chaos non è il principio degli dei olimpici, né del mondo concreto che invece fanno capo piuttosto a Gaia, la terra, la quale svolge il ruolo di figura materna. Essa genera Urano, il cielo, e da questa coppia discendono gli dei, i titani ed altre figure più o meno spaventose: i ciclopi e i centimani, figure che incarnano ancora la turbolenza ed il disordine, ma che s’inseriscono in un cammino di conquista progressiva di norma e di ordine. In generale gli studiosi sono d’accordo sul fatto che non si possa considerare il Chaos solamente come un’entità negativa, come spazio vuoto, regno del disordine, in cui le entità vengono in essere e trovano la propria collocazione. A ragione ci si può forse limitare a dire che il Chaos in Esiodo rappresenti la realtà ancora priva di forma e per questo non ha ancora acquisito «la pienezza e la specificità dell’essere»[32]. Nei vv. 736-740 sembra proprio che il Chaos trovi una propria collocazione spaziale, dando al contesto non solo una visione cosmogonica da parte dell’autore, ma anche una visione cosmologica. Esso è concepito come il luogo tra la terra ed il tartaro, dove sono le scaturigini delle quattro parti del mondo: terra, tartaro, mare e cielo. Per Esiodo, ma vale lo tesso per Omero, la Terra è un disco circondato da un fiume circolare, Oceano, senza origine e senza fine perché si getta in esso stesso. Al di sopra della Terra vi è il Cielo detto di “bronzo” poiché inalterabile e solido, mentre la terra fonda la propria stabilità su delle possenti radici. J. P. Vernant vede nella descrizione di Esiodo lo schema di un’immensa giara che termina con un collo stretto, da dove spuntano le radici del mondo[33]. Nella giara si trovano turbini di vento caotico; è il regno del disordine che con l’avvento di Zeus viene definitivamente tappato in modo che non possa più avere nessun contatto con il mondo reale.

«Per primi risvegliarono l’aspra battaglia / Cotto, Briareo o e Gige insaziabile di lotta, / loro che dalle mani robuste trecento pietre / scagliavano fitte e con i dardi coprivano i Titani; / e sotto la terra dagli ampi cammini / li inviarono e li avvinsero in legami terribili, / dopo che con le mani li vinsero, per quanto superbi, / tanto in profondità sottoterra quanto dalla terra il cielo è distante: / tanto vi è dalla terra al Tartaro tenebroso. / Inaftti un’incudine di bronzo per nove notti e nove giorni / precipitando giù dal cielo, nel decimo giungerebbe a terra;/ [pari a sua volta è lo spazio dalla terra al Tartaro tenebroso;] / di nuovo un’incudine di bronzo per nove notti e nove giorni / cadendo dalla terra, nel decimo giungerebbe al Tartaro. / Un recinto di bronzo gli corre attorno; in giro a esso la notte / in tre file si versa circondandogli il collo, mentre al di sopra / le radici nascono dalla terra e dal mare infecondo.»[34]

J. Clay rimane stupefatto di come Esiodo presenti in questo punto della sua opera, una descrizione così precisa di luoghi la cui conoscenza effettiva da parte dell’autore risulta ragionevolmente impossibile[35]. G. Arrighetti fa notare come la descrizione si orienti ora in senso “orizzontale”, procedendo da “un più vicino” ad “un più lontano”, ora in senso “verticale”, da “un più alto” ad “un più basso”. Se da un lato infatti il paragone dell’incudine che precipita (vv. 722-725) richiama l’immagine del Chasma di profondità infinita, dall’altro il recinto di bronzo che corre intorno alla regione (VV. 726-728) orienta l’immaginario del lettore lungo un percorso orizzontale interrotto solo dalla tensione verso l’alto delle radici della terra e del mare (v. 727)[36]. È interessante anche notare la metafora dell’incudine di bronzo che sta ad indicare qualcosa di veramente pesante e crea un’immagine davvero suggestiva e allo stesso tempo trasmette in maniera poetica quelle che erano le conoscenze fisiche dell’epoca a proposito dell’accelerazione dei corpi in caduta. La nozione di accelerazione di gravità è stata introdotta dalla fisica newtoniana, fino ad allora e quindi per tutta l’antichità, si riteneva che i corpi cadessero a terra per una loro intrinseca pesantezza. L’osservazione empirica del fenomeno aveva portato a ritenere che la velocità di caduta di un grave era direttamente proporzionale al suo peso. Per Esiodo la caduta dell’incudine di bronzo, che raggiunge il fondo in un intervallo lunghissimo (nove giorni e nove notti per abbattersi al suolo nel decimo giorno), sta ad esprimere la quasi inimmaginabile profondità infinita “dello spazio” che separa la terra dal Tartaro.

Ritornando ora al racconto notiamo che l’amplesso divino tra Gaia e Urano attraverso il loro congiungimento non assicura nessuna stabilità ed ordine al cosmo fino a quando Crono non evira il padre. Cessa allora l’amplesso divino, i primi elementi trovano la loro definitiva collocazione; il cielo e la terra non si uniranno più e rimarrà ciascuno al proprio posto e lontani per sempre. C’è da notare però che le nascite per partenogenesi sono meno positive di quelle in cui l’elemento maschile contribuisce alla generazione. Infatti Ge, la terra, da sola genera Urano (cielo), Monti e Mare, ma con l’intervento di Urano grazie ai favori di Eros, origina Oceano, Hiperione, Cronos e i Titani che faranno l’universo abitato dagli uomini e dagli dèi. Sono molte le atrocità cantate da Esiodo e avvenute prima dell’ordine e della giustizia di Zeus, ma tali sciagure fanno parte di un tempo e di un mondo che non ha nulla a che fare con il cosmo attuale.

Il fatto che il mondo acquisti un proprio ordine, solamente dopo la cessazione di un amplesso divino, è un motivo che già si ritrova in Omero quando dice che Oceano e Teti, dalla cui unione era nato il mondo «da molto tempo stanno lontani dall’amore e dal letto»[37]. Anche il mito pelasgico della creazione, come abbiamo visto, racconta della fine dell’originaria unione tra Eurinome ed Ofione, quando lo respinge nelle caverne sotterranee.

In conclusione possiamo dire che la Theogonia di Esiodo è stato il primo ed allo stesso tempo uno dei più importanti tentativi di proporre una visione sistematica del mondo fisico e di quello divino.  Il linguaggio mitico di Esiodo confonde, ma non annulla la struttura logica del racconto, sebbene siamo ancora lontani da un vero e proprio sistema filosofico[38]. L’opera di Esiodo quindi rivela anche certi tratti razionalistici che la allontanano da determinate concezioni primitive, egli non s’interessa del caso particolare, ma al principio ed al sistema del cosmo e attraverso i miti riesce a spiegare la natura e l’origine del mondo. Siamo però ancora nel contesto di una mentalità prefilosofica; i fruitori dei miti erano consapevoli delle misteriose forze dell’universo che influenzavano la vita degli uomini; come agricoltori i greci erano legati al suolo, alla pioggia, al ciclo delle stagioni; inoltre come naviganti erano soggetti al tempo atmosferico, al ciclo delle maree, al moto degli astri. Vivevano in simbiosi con tali forze che spesso ne determinavano la morte o la sopravvivenza.

 Nella sistemazione delle varie divinità, Esiodo non segue una struttura gerarchica di tipo teologico, se non per quel che riguarda Zeus, la cui nascita chiude i cicli delle due grandi generazioni. Grazie alle genealogie, Esiodo assegna un proprio posto a tutte le divinità in un sistema ben ordinato che rappresenta l’infinita varietà dei fenomeni naturali; attraverso poi l’origine genealogica di ogni divinità, ci dice anche qualcosa sulla loro natura.

Alla prima generazione i cui capostipiti sono Gaia e Urano, appartengono non solo divinità importanti, ma anche divinità minori, come Theia, Mnemosyne e Febe; figure minori rispetto all’impianto teologico ma rappresentative nella visione del mondo. La genealogia di ciascuna divinità già racchiude il senso che essa ha nel cosmo, ad esempio: Theia è la divinità della luce, figura della verità non a caso la sua radice è la stessa del verbo theiazo, ovvero “l’attività di profetizzare”; Mnemosyne è la memoria; Phebe ha la stessa radice di phoibesis, il vaticinio; è proprio grazie a loro se l’uomo può accedere alla conoscenza.

Esiodo comunque non mostra alcun sentimento di particolare pietas ad eccezione delle muse che sono le sue dirette protettrici. Egli, in quanto poeta, si considera il tramite della rivelazione e dell’insegnamento della verità. Nel mondo da lui descritto tutto ha compimento in Zeus, personificazione e custode delle leggi da cui l’universo è governato. Non si può però dire che il poeta di Ascra non nutra una fede sincera nelle forze divine, poiché tutto l’impianto teogonico apparirebbe privo di qualsiasi senso, se Esiodo non credesse nell’esistenza delle divinità elencate. Attraverso tutta questa genealogia il Nostro non fa altro che «descrivere ciò che esiste, ciò che è vivo e importante nel mondo»[39].

L’ordine del cosmo si riflette prima di tutto nell’ordine del tempo: sia lineare, con lo sviluppo delle generazioni divine, sia ciclico attraverso il perenne alternarsi della luce e delle tenebre, del Giorno e della Notte[40].

Pertanto possiamo dire che lo scopo della teologia esiodea è quello di spiegare il perché “la realtà è quella che è” e assolve questo compito attraverso «un sistema di entità divine, organicamente connesse tra loro, ciascuna delle quali, col suo giungere all’esistenza e col suo agire, da ragione dei fatti di cui la realtà si compone»[41]. Per realtà non s’intendono solamente i fenomeni naturali, ma anche quelli sociali. Così non possiamo fare a meno di condividere l’opinione del Vernant, che vede nelle teogonie i riflessi di un’organizzazione sociale arcaica; essi sono veri e propri miti di sovranità; esaltano la potenza di un dio attraverso l’epopea della sua nascita, delle sue lotte ed del suo trionfo.[42] L’ordine è proprio il frutto della vittoria di questo dio sovrano che stabilisce la sua supremazia su un cosmo non più abbandonato all’instabilità e alla confusione.

Non meno importante è poi notare che nel ciclo omerico, gli eroi, le loro opere e le loro imprese ci sono descritte in un mondo luminoso, splendente, in cui il fulgore delle divinità impedisce qualsiasi zona d’ombra, di buio. In Esiodo invece il quadro diventa alquanto realistico. Ciò che circonda l’uomo spesso è causa di dolore e acuta sofferenza, l’ordine divino lascia il posto all’orrido e l’informe, ma il poeta di Ascra non può fare a meno di descrivere queste zone d’ombra del cosmo, il suo scopo è sempre quello di “cantare” la verità. Come avvenga che questo lato oscuro dell’essere sia possibile anche sotto il dominio di Zeus, rappresenta per Esiodo un difficile problema religioso. Egli distingue nettamente nella sua genealogia, fra due diverse stirpi che non si mescolano mai tra loro: da un lato i discendenti di Nyx, la Notte, che questa ha generato da sola senza un padre; dall’altro lato tutti gli altri dei. I discendenti della notte sono Invidia, Inganno, Vecchiaia, Contesa, Fatica, Fame, Dolore, Assassinio ecc., esseri che insidiano e minacciano la vita dell’uomo. È di qui che deriva quel dualismo del pensiero greco che condurrà alla dottrina degli opposti, con cui Anassimandro, Eraclito, Empedocle ecc. cercano ognuno in forma diversa, di spiegare il mondo.[43]

L’universo quindi consiste in una gerarchia di potenze che rispecchia appieno la struttura della società umana. Tale sistema però non è inserito in un raffigurazione spaziale, né può essere quindi collocato in una posizione reale, né ha un’estensione, né un movimento. Il mito non si preoccupa tanto di delineare una visione fisica del mondo, ma di illustrare i rapporti gerarchici di forza che determinano ruoli di dominazione e sottomissione. Gli aspetti spaziali si giocano su livelli cosmici e non su proprietà geometriche. L’ordine del cosmo si è sviluppato non a partire da una necessità propria degli elementi che costituiscono l’universo, ma il tutto viene inteso come l’atto concreto di un artefice che il mito incarna nel sovrano dell’edificio cosmico. La sua monarchia determina quell’equilibrio gerarchico che non darà più modo al chaos di  invadere il mondo.

Questa concezione di riflesso, che traspare nei miti omerici ed esiodei, non è altro che il retaggio di un antica società, quella micenea, in cui l’anax, ovvero il re, era una figura politico-religiosa. Ben si ricollega a questa figura il mito della sovranità celeste che pone alle dipendenze del re l’ordine delle stagioni, i fenomeni atmosferici, la fecondità della terra, del bestiame e delle donne. Già al tempo di Omero e di Esiodo, tale situazione sociale era mutata da diversi secoli, nelle loro opere però, poiché attingono a materiale molto antico, questo retaggio rimane incastonato come un fossile.

Tale situazione, se da una parte dava alla narrazione un carattere sacrale e la rendeva degna di fede, poiché proveniente direttamente da una mitica età dell’oro, dall’altra rappresentava una liturgia non più comprensibile. Dopo il crollo della monarchia micenea, gli antichi rituali monarchici che mettevano in connessione le imprese mitiche attribuite ad un sovrano con l’organizzazione dei fenomeni naturali, non erano più evidenti. Già in Esiodo l’ordine del cosmo è dissociato da qualsiasi funzione regale e rituale. Nelle stesse genealogie si può scorgere come il mondo visibile sia il frutto non di un agente, ma di un processo generativo da parte di potenze: cielo, terra, mare, luce, notte; si intravede, se così si può dire, una legge di sviluppo spontaneo attraverso la quale si è determinato il mondo. Ouranos, Gaia, Pontos, rappresentano certamente delle realtà fisiche dal punto di vista fenomenologico, ma allo stesso tempo agiscono in modo antropomorfico visto che si accoppiano e generano. In Esiodo si individuano due livelli di comprensione: uno rappresentato dal dato oggettivo, per esempio il fatto che la separazione della terra dalle acque è prima di tutto un fatto naturale nel mondo visibile; il secondo livello di comprensione invece è dato dalla narrazione dello stesso fatto, come una procreazione divina in un tempo ancestrale. Come giustamente fa notare il Vernant: «Malgrado lo sforzo di delimitazione concettuale che vi si nota, il pensiero di Esiodo resta prigioniero del suo quadro mitico»[44].

La Theogonia è da ritenersi essenzialmente un’opera poetica, essa non fu mai considerata un libro sacro, alla stregua per esempio dei Veda indiani, né come un’opera connessa con il culto, come per esempio il poema babilonese della creazione; nonostante questo però, assieme ai poemi omerici, ha goduto di un ruolo particolarmente importante nella fissazione della tradizione mitica greca. I loro racconti sono diventati dei modelli canonici per tutti quegli autori che li hanno seguiti e per il pubblico che li ha ascoltati o letti. È attraverso questi poemi che gli antichi greci hanno costruito l’immagine dell’intero universo visibile abitato da uomini e dèi. Prima di tutto vi era il Caos, da cui era stata tratta la materia per costruire il Cosmo e questo Caos una volta costituito il Cosmo era stato compreso nella parte inferiore di esso ed era diventato il Chasma, l’abisso. Proprio nel Chasma affondano i pilasri su cui poggia il disco terrestre. Queste fondamenta del mondo si immergevano nelle acque del Tartaro in cui rifluivano tutte le acque della terra. La terra era circondata da un grande oceano, e sul bordo dell’oceano la volta celeste si poggiava tutta intorno e come un immenso coperchio ricopriva il l’orbe terracqueo.

Sicuramente però le tradizioni orali cosmogoniche e teogoniche che circolavano in epoca arcaica dovevano essere assai numerose e dovevano presentare anche diverse divergenze rispetto alla Theogonia. I frammenti che ci sono pervenuti ci riportano l’esistenza di una Titanomachia composta da Arctino di Mileto, poeta vissuto secondo la tradizione al tempo delle prime Olimpiadi (VIII sec. a.C.). Nella sua opera oltre a trattare della guerra tra gli dei olimpii ed i Titani, illustra anche l’origine delle cose[45]. Alcuni autori attribuisco quest’opera a Eumelo di Corinto, attivo nella seconda metà del secolo VIII a.C. ma nulla ci vieta di ritenere che possano essere stati entrambi autori di due diverse titanomachie[46].



[1] I passi dell’Iliade in cui sono presenti degli indizi cosmologici sono V, 748-769; VIII, 13-27; VIII, 478-486; XV, 187-195; XXI, 190-199; per un’esaustiva argomentazioni su questi passi si veda E. A. Havelock, The cosmic Myths of Homer and Hesiod, in «Oral Tradition», 2 (1987), pp. 31-53.

[2] Hom., Il., XXI, 196-197.

[3] Hom., Il., VIII, 10.

[4] Hom., Il., XVIII, 849.

[5] Cfr. H. L. Lorimer, Stars and Constellation in Homer and Hesiod, «The Annual of the British School at Athens», 46 (1951),  p. 92.

[6] Cfr. Hesiodus, Theogony,  M. L. West (ed.),Oxford, 1966, p. 14.; R. A. Sarno, Hesiod: From Chaos to Cosmos to Community, in «The Classical Bulletin», 45 (1969), p. 65.

[7] Esiodo, Theog., vv. 24-28; nella Grecia arcaica le Muse erano tre e si chiamavano Melete, Mneme, Aoide; erano venerate in un antichissimo santuario sul monte Elicona. Melete indica la disciplina indispensabile all’apprendistato del mestiere di aedo, Mneme è la funzione psichica che permette di improvvisa e recitare, Aoide è il prodotto finito ovvero il poema (Paus. IX, 29, 2-3).

[8] Esiodo, Theog., v. 38; per questa formula tipica del sapere mantico cfr. Il., I, 70.

[9] E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1973, pp. 116.

[10] M. Detienne, Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris, 1973, pp. 21-30.

[11] Sembra proprio che fin dall’antichità la parola Musa abbia avuto un doppio significato. Come nome proprio Musa e come nome comune riferendosi alla “parola cantata”, cfr. . Idem, p. 3.

[12] Hesiodus, Theogony,  M. L. West (ed.),Oxford, 1966, p. 159.

[13] E.  R. Dods, I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1973, pp. 148-149.

[14] Cfr. C. Miralles, L’iscrizione di Menesiepes, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», N.S. 8 (1981).

[15] E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1973, pp. 148-149.

[16] «Diventa in tal modo probabile che un accumulo di eccitazione in quelle aree dell’emisfero destro che servono alla musica strumentale si propaghi nelle aree adiacenti che servono ad allucinazioni uditive divine, o viceversa. Di qui lo stretto rapporto esistente fra musica strumentale e poesia, e fra entrambe e le voci degli dèi. La musica, quindi, potrebbe essere stata inventata come eccitante neurale delle percezioni allucinatorie degli dèi e della loro voce quando si trattava di prendere decisioni in assenza della coscienza. Non è dunque un’oziosa coincidenza storica il fatto che il nome stesso della musica derivi dalle sacre dee chiamate Muse. Anche la musica ha avuto infatti inizio nella mente bicamerale».J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale, Milano, 20022, p. 437.

[17] Esiod., Theog., 1-35; qualora ci si voglia fare un’idea sui luoghi in cui visse  Esiodo si legga il contributo di P. W. Wallance, Hesiod and the Valley of Muses, in «Greek, Roman and Byzantine Studies», 15 (1974) pp. 5-24.

[18] Esiod., Theog., 36-105.

[19] Esiod., Theog., 126-128.

[20] Esiod., Theog., 176-182.

[21] Esiod., Theog., 459-464.

[22] Esiod., Theog., 471.

[23] Esiod., Theog., 821-869.

[24] Esiod., Theog., 881-885.

[25] Esiod., Theog., 886.

[26] Hom., Il., XV, 187-193.

[27] Hom., Il., XIV, 246.

[28] Hom., Il., XIV, 201, 302.

[29] U. Bianchi, Per la storia della teologia dei Greci: la «Teogonia» di Esiodo, in La coscienza religiosa del letteratopagano, Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., Università di Genova, Facoltà di Lettere, N.S. 104, Genova, 1987, pp. 10-11.

[30] Cfr. Hesiodus, Theogony,  M. L. West (ed.),Oxford, 1966, p. 192 ssg. Si veda anche  F. Solmsen, Chaos and «Apeiron», in «Studi Italiani di Filologia Classica», N.S. 24 (1950), pp. 235-248 poi in ID., Kleine Schrifsten, I, Hildesheim, 1968, pp. 68-81; D. Bremer, Licht und Dunkel in der frühgriechischen Dichtung. Inerpretationem zur Vorgeschichte der Lichtmetaphysik, in «Archiv für Begriffsgeschichte», Suppl. I, Bonn, 1976, pp. 169-172.; J. Bussanich, A Theoretical Interpretation of Hesiod’s Chaos, in «Classical Philology», 78 (1983), pp. 212-219; R. Mondi, The Ascension of Zeus and the Composition of Hesiod’s «Theogony», in «Greek Roman and Byzantine Studies», 25 (1984), pp. 325-344.

[31] Ovidio, Metamorphoses, I, 7.

[32] Cfr. Esiodo, Opere, G. Arrighetti (ed.), Torino, 2007, pp. 325-326.

[33] Cfr. J. P. Vernant, Mito e pensiero presso I Greci, Torino, 2001, p. 204-205; la spiegazione del perché i Greci avessero codificato l’immagine dell’origine del mondo in una giara è spiegata dal fatto che i loro antenati sotterravano nel suolo del loro celliere delle grandi giare, che potevano contenere sia i frutti della terra che i cadaveri dei morti di casa. Il mondo sotterraneo simboleggiato dalla giara è quello da cui germogliano i semi delle piante e riposano i morti.

[34] Esiod., Theog., 713-728.

[35] Cfr. J. S. Clay, The Hecate of the Theogony, in «Greek Roman and Byzantine Studies», 25 (1984), pp. 144 e sgg..

[36] Cfr. Esiodo, Opere, G. Arrighetti (ed.), Torino, 2007, pp. 192 e sgg.; Vedi anche Esiodo, Theogonia, E. Vasta (ed.), Milano, 2004, p104-105, Nota 135.

[37] Hom., Il., XVI, 206-207.

[38] J. P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Torino ,1981, pp. 204-205.

[39] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, op. cit., p. 76.

[40] Esiod., Theog., 744-756.

[41] Esiodo, Opere, op. cit, p. 282.

[42] Cfr. J. P. Vernant, Le origini del pensiero Greco, Milano ,2007 , p. 102.

[43] Cfr. B. Snell. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, op. cit., p. 80.

[44] Cfr. J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, op. cit , p. 109.

[45] Cfr. A. Barnabé, Poetae Epici Graeci, I, Stuttgart, 1987, frr. 1-11.

[46] Cfr. M. L. West, «Eumolos»: a Chorinthian epic Cycle?, in «Journal of Hellenic Studies», 122 (2002), PP. 110-118 e 129 sg. Per quanto riguarada la Titanomachia vedi J. Dörig – O. Gigon, Der Kampf der Götter und Titanen, Olten, 1961, PP. VI-XXIV.

 

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13.09.2012 22:01

Corzybski precursore della linguistica cognitiva

Un aneddoto

 

Un giorno, mentre teneva una lezione ad un gruppo di studenti, s'interruppe per prendere dalla sua borsa un pacchetto di biscotti avvolto in un foglio bianco. Borbottò che aveva solo bisogno di mandar giù qualcosa, e offrì i biscotti agli studenti seduti nella prima fila. Alcuni ne accettarono uno. – Buoni questi biscotti, non vi pare? – disse Korzybski dopo averne preso un secondo. Gli studenti masticavano vigorosamente. Poi tolse il foglio bianco mostrando il pacchetto originale. Sul quale c'era l'immagine di una testa di cane e le parole “biscotti per cani”. Gli studenti videro il pacchetto e rimasero scioccati. Due di loro si precipitarono fuori dall'aula verso i bagni tenendo le mani davanti alle bocche. – Vedete signori e signore? – commentò Korzybski – ho appena dimostrato che la gente non mangia solo il cibo, ma anche le parole, e che il sapore del primo è spesso influenzato dal sapore delle seconde -. La sua burla mirava ad illustrare come certe sofferenze umane vengano originate dalla confusione tra la rappresentazione linguistica della realtà e la realtà stessa.

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