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L’alba della civiltà ellenica: Omero ed Esiodo

14.09.2012 15:52

estratto da: "DAL MYTHOS AL LOGOS: IMMAGINI E MODELLI DEL MONDO"

In corso di stampa

Giovanni De Santis

 

Diverse centinaia di anni prima che in Grecia fosse canonizzato ed epistemologicamente determinato il metodo logico-razionale, le testimonianze letterarie più arcaiche giunte sino a noi, ci mostrano i primi tentativi d’invenzioni protologiche. Naturalmente però riguardo ai poemi omerici, si può parlare solo genericamente di una propria weltanschauung, infatti queste opere non presentano una visione del mondo esaustiva, coerente ed organizzata. Sparsi all’interno della narrazione sono introdotte incidentalmente alcune idee che non assolvono ad una preoccupazione di tipo pratico o speculativo, bensì hanno una funzione prettamente drammatica, funzionale alla narrazione[1]. Quale fosse la concezione cosmologica di Omero la si può desumere solamente analizzando gli elementi sparsi qua e là all’interno della narrazione. Così apprendiamo che per grandi linee il cosmo omerico è diviso in tre parti: Cielo, Terra-Ade, Tartaro; Cielo e Tartaro sono equidistanti da un centro, Terra e Ade, anche se non è chiaro se in questo centro la Terra e l’Ade sono congiunti o separati. Attorno alla terra scorre il fiume Oceano, da cui sgorgano tutti i fiumi e tutti i mari, tutte le sorgenti e tutti i pozzi profondi[2]. Sotto la terra forse si trova l’Ade, la dimora dei morti e ancora più giù vi è il Tartaro, «tanto lontano dall’Ade quanto la terra dal cielo».[3] I personaggi di Omero osservano il cielo notturno e si accorgono del ruotare ciclico delle costellazioni di cui conoscono i nomi: le Pleiadi, le Iadi, Orione, l’Orsa, della quale si dice che è l’unica a non tramontare mai, «è la sola a non bagnarsi mai nell’oceano»[4]. H. L. Lorimer fa notare che l’attenzione di Omero è rivolta più alle stelle individuali, mentre Esiodo, nelle sue opere, mostra più interesse per le costellazioni. Questo è dovuto al fatto molto probabilmente che Omero rappresenta una società rurale, il cui sostentamento proviene prettamente dall’agricoltura e non ha nessun interesse nella complicata determinazione delle costellazioni. Invece in Esiodo vi è l’impronta di una società più complessa, in cui le costellazioni servivano ad orientarsi nella navigazione.[5]  Sia nell’Iliade sia nell’Odissea vi sono anche particolareggiate descrizioni di molti fenomeni naturali che fanno da sfondo alla narrazione. In entrambi i poemi, tuttavia, al centro dell’azione drammatica non vi è il rapporto tra l’uomo e la natura come appare, bensì tra gli uomini e gli dei che hanno determinato il mondo così com’è. I personaggi di queste opere vivono in un mondo in cui l’alternarsi delle costellazioni è governato da un ordine stabilito. Il mondo circostante quindi mostra numerose manifestazione di ordine e regolarità, sconvolti allorquando subentrano i capricci degli stessi dei.

Il primo testo di rilievo in cui ci imbattiamo è la Teogonia di Esiodo. Si ritiene tale opera il primo documento che offre una sistematica ed organica visione d’insieme del pantheon greco, ma bisogna precisare che Esiodo sicuramente non sarà stato il primo a sistematizzare una teogonia, ma a quanto pare fu il primo a metterla per iscritto[6].  Di là dal contenuto puramente tecnico e delle varie generazioni divine, la cosa che maggiormente colpisce il lettore, è che il poeta di Ascra, fin dall’inno introduttivo in cui invoca le Muse, fa della sua narrazione un veicolo di verità cosmiche. Così Esiodo non ritiene l’arte poetica un semplice mezzo ricreativo, ma un’arte che può aiutare gli uomini a capire la natura e l’universo. Le muse sono coloro che permettono all’aedo di accedere ad una conoscenza vera e di fuggirne una falsa, sono loro le garanti dell’autenticità del sapere trasmesso[7]. Non sempre però la poesia è veicolo di verità eterne, a volte il poeta è soggiogato dall’inganno e dall’illusione da parte delle stesse Muse, così che il suo canto può anche diventare veicolo di falsità. L’imperfetta o addirittura falsa concezione che gli uomini hanno della divinità, forse per colpa di cattivi poeti male ispirati dalle Muse, cagiona il traviamento morale, ma nel caso di Esiodo, la teofania incarnata dalle muse, rivela al poeta l’unica realtà esistente e degna di essere oggetto del canto «le cose che sono, che saranno, che furono»[8] e cioè la conoscenza del presente, del futuro e del passato. Per il sistema etico esiodeo la rivelazione divina della verità spetta ad un dio che arbitrariamente e capricciosamente può decidere a chi concederla e a chi no. Di conseguenza, il ruolo sociale dell’aedo si assimila a quello dell’oracolo e le sue parole, al pari dei vaticini, svolgono un compito funzionale per la società. A questo punto però è d’uopo domandarsi quanto sia attendibile ciò che le Muse riveleranno ad Esiodo, visto che per loro stessa ammissione non sempre garantiscono la sincerità. Esiodo comunque mostra una devozione cieca a ciò che gli rivelano le muse, le fautrici della sua ispirazione poetica[9]. M. Detienne cerca di risolvere il problema individuando all’interno della Theogonia una distinzione tra verità e memoria da un lato, elementi positivi e “chiari”, e menzogna e oblio dall’altro, elementi negativi e “scuri”. Verità e memoria vengono quindi ad equivalersi al pari dei loro contrari, ed il racconto esiodeo, nato per volontà divina non può che essere autentico. Infatti se aletheia etimologicamente vuol dire “assenza di oblio” e se le Muse sono figlie di Mnemosine (personificazione della memoria), essendo Esiodo un devoto cantore delle Muse, esse non possono che raccontargli la verità[10]. Lo svolgersi degli accadimenti protologici quindi, non sono visti direttamente dal poeta, ma sono le muse a trasmettergli la loro conoscenza, lasciando fuori qualsiasi partecipazione della coscienza dell’aedo ad eccezione della sua memoria. La memoria del poeta ispirato è una memoria sacralizzata, diversa da quella dell’uomo comune, è un’onniscienza di carattere divino attraverso cui il poeta entra in contatto con il mondo delle divinità e riesce a decifrarne l’impercettibile. Il principio dogmatico su cui poggia la veridicità degli argomenti cantati, risiede tutto in una rivelazione verbale. Così come nei poemi omerici, in Esiodo le Muse sono collegate alla voce ed al canto[11]; la loro azione specifica è quella di «dire (léghein)», «cantare (gery’ssasthai)», ma cosa dicono, cosa cantano? Cantano le risposte alle domande di senso della vita che l’uomo si pone; a loro modo queste figure interpretano un medium conoscitivo tra il mondo divino e quello umano.

Molti si sono domandati se si tratta di un artificio poetico o di una vera e propria esperienza sensoriale vissuta dagli aedi. Questo incontro di Esiodo con le Muse ha posto molti interrogativi sull’interpretazione del significato della scena. M. L. West fornisce quattro possibili interpretazioni: a) ascrivere la scena in un’ambientazione onirica, b) considerarla come un’esperienza religiosa, c) un puro artificio letterario, d) una semplice metafora per esprimere una propria intuizione[12]. Dal canto suo invece E. R. Dodds vede in questo incontro di Esiodo, una vera e propria esperienza religiosa d’incontro con il divino[13]. A sostegno di tale tesi egli propone un confronto con altri casi simili documentati nella storia della letteratura greca. Erodoto (VI, 105) racconta l’episodio accaduto a Filippide, il quale mentre si recava ad Atene, gli apparve il dio Pan in persona che gli ordinò di rimproverare gli ateniesi per la scarsa pietas che gli dimostravano. Oppure ancora più cogente è la vicenda di Archiloco, così com’è riportata nell’iscrizione di Mnesiepes (III sec. a.C.)[14]. Vi si narra che il giovane Archiloco, inviato dal padre in campagna perché scegliesse una vacca da vendere l’indomani al mercato, s’imbatte in un gruppo di donne che tornavano dai campi. Dopo uno scambio di battute mordaci le donne gli chiesero se si stava recando in città per vendere l’animale. Alla risposta affermativa di Archiloco le donne gli promisero che gli avrebbero in futuro reso onore e scomparvero assieme alla giovenca. Ancora scosso da quello che gli era accaduto, il giovane vide a terra davanti a lui una lira. In seguito interpretò la vicenda come una specie d’iniziazione poetica e quelle donne altri non erano che le Muse sotto mentite spoglie.[15] Ma non solo nella letteratura greca possiamo trovare spunti, se andiamo uno sguardo alle scritture ebraiche, rimaniamo stupiti nel trovare un episodio simile alla vicenda di Esiodo. Nel libro dell’Esodo troviamo un altro pastore come Esiodo, Mosè a cui Dio si rivela attraverso la visione di un roveto ardente. Il parallelismo è presto fatto: Esiodo che pascola le pecore sul monte Elicona e Mosè che pascola il suo gregge sul monte Oreb (Es.3,1), in un caso avviene l’epifania delle Muse, nell’altro quella di JHWH. J. Jaynes cerca di dare una spiegazione plausibile a questi fenomeni epifanici; egli sostiene che fino a ca. il 1000 a.C. gli uomini non possedevano una mente cosciente nel senso moderno del termine ma erano guidati da voci interiori che erano attribuite agli dèi. Nella sua opera, «The Origin of Consciousness in the Breakdown of the bicameral Mind», J. Jaynes presenta indizi ricavati dall’archeologia e dai libri più antichi (Iliade, Odissea, Bibbia). Secondo questa teoria la prova di questo primitivo «stato di coscienza» sarebbe da ricercarsi nella schizofrenia, un residuo vestigiale di quest’antica struttura della mente. Secondo J. Jaynes la musica stessa che accompagnava i componimenti, fungeva da stimolante sulla corteccia dell’emisfero destro[16]. Infatti la comune derivazione delle due parole doveva essere particolarmente sentita dagli antichi se Platone, nel Cratilo, fa dire a Socrate che il nome «Muse» e tutta l’ars musica derivano da moo^sthai, cioè zetei^n, “cercare” (Cratyl. 406 a).

Comunque di là da qualsiasi teoria, possiamo correttamente affermare che la Teogonia di Esiodo sia la più antica testimonianza della prima forma di teologia sviluppatasi presso le popolazioni elleniche. Questa non tratta episodicamente delle vicissitudini delle varie divinità, bensì si sviluppa secondo un processo genealogico che accomuna le varie entità divine attraverso un génos comune.

Esiodo, come abbiamo già visto, dopo l’invocazione alle Muse Eliconie[17] ed alle Muse Olimpie[18], tutrici degli aedi, inizia a cantare la genealogia divina. Tutto ha inizio con Chaos, poi c’è «Gaia dall’ampio petto che generò Urano stellato, simile a sé perché l’avvolgesse tutta intorno e fosse la sede sicura dei beati per sempre»[19]. Dall’unione di Gaia ed Urano avrà vita una lunga progenie di figli tra i quali Oceano «dai gorghi profondi», Rea, i ciclopi «dal cuore superbo», i giganti centimani Cotto, Briareo e Cige e per ultimo, Kronos «dai torti pensieri». Tutti quelli però che nascono dall’unione di Gaia ed Urano sono presi in odio dal padre che li costringe a rimanere nel ventre della sua sposa. Questa allora, non riuscendo a sopportare così lancinante dolore, pensa di tramare un piano ingannatore nei confronti di Urano. Fabbrica una falce e la offre ai suoi figli per vedere chi sarebbe stato disposto a vendicarla. Solamente Kronos risponde all’invito della madre, la quale prepara l’agguato e gli affida la falce vendicatrice. «Venne, portando la notte il grande Urano, e attorno a Gaia, pieno di desiderio si distese ovunque. Così dal luogo dell’agguato uscì fuori il figlio con la mano sinistra e con la destra, impugnata la falce grande e terribile, tagliò potentemente i genitali del padre e li gettò via lontano, indietro»[20].

       Ora il posto di Urano, evirato, è preso da Kronos che sposa Rea la quale gli partorirà: Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. Appena ciascuno di questi usciva dal ventre della madre, Kronos lo divorava, «escogitava questo affinché nessuno fra gli illustri figli di Urano ottenesse il potere regale. Infatti aveva saputo da Gaia ed Urano stellato che sarebbe stato vinto da un figlio»[21].  Accade allora che proprio quando Rea era prossima a partorire Zeus, questa pregò i genitori, Gaia ed Urano, di consigliarle come «nascondere il suo parto»[22]. Rea così avvolge una grande pietra come se fosse un infante e la da a Kronos per fargliela divorare. Zeus, sottratto all’imminente pericolo, è portato a Creta dove è allevato dalle Ninfe e nutrito dalla capra Amaltea. I vagiti del piccolo Zeus sono coperti dai Cureti che, danzando e percuotendo gli scudi con le spade impediscono a Kronos di udirli. Zeus crebbe e arrivò il momento in cui avrebbe aspirato a diventare «Signore del Kosmos» ma prima doveva battersi con Kronos ed i Titani che si erano messi al fianco di quest’ultimo. Dalla sua Zeus aveva Poseidone, Ade, i Ciclopi (dai quali ottenne la folgore) e i tre giganti centimani. La guerra dura dieci anni e si conclude con la vittoria di Zeus che esilia i Titani nel Tartaro.

Ancora però Zeus non può regnare senza pericolo; dopo che ebbe cacciato i Titani nel Tartaro Gea generò Tifeo, un mostro dalle sembianze spaventose, pronto ad insidiare il primato di Zeus. Ma il re degli dèi grazie alla folgore lo schianta nel Tartaro[23].

Continua il testo esiodeo:

«Così, dopo che gli dei beati ebbero compiuto la loro fatica e coi Titani conclusa di forza la loro disputa, allora invitarono a prendere il trono e il comando, per i consigli di Gaia, l’olimpio Zeus dall’ampio sguardo sugli immortali, e lui distribuì a loro gli onori (timàs)»[24].

 Oramai Zeus è theoo^n basileu’s[25],  “signore degli dèi” che, in quanto tale, si erge a garanzia di un kosmos che lui stesso ha realizzato grazie alla sua vicenda mitica.

Già l’Iliade conosce una divisione-attribuzione del mondo orientata in questo stesso modo. Infatti, durante un colloquio con Iris, Poseidone afferma:

«Tre sono i figli di Kronos che generò Rea: Zeus, io, e terzo Ade, il signore degli inferi. Tutto venne diviso in tre ed ognuno ebbe una parte. A me toccò di vivere sempre(a’iéi) nel mare canuto, quando tirammo le sorti, Ade ottenne l’ombra nebbiosa, Zeus si prese il cielo fra le nuvole e l’etere; rimangono comuni a tutti la terra e l’alto Olimpo»[26].

Nel passo omerico la parola chiave è “per sempre”, e sottintende che quanto è avvenuto tra le divinità della terza generazione è, in qualche modo, definitivo ed immutabile, pena il ripristino del chaos. Infatti Zeus rinuncerà ad unirsi con Teti una volta saputo da Prometeo che da quest’unione sarebbe nato un figlio che lo avrebbe spodestato. Nell’immaginario greco però questo non può avvenire: l’allontanamento di Zeus coinciderebbe con quello del kosmos e con il ritorno del Chaos.

Dal confronto con Omero vediamo che egli si rifà a delle tradizioni mitologiche che, in parte, differiscono dalla sistemazione esiodea, anche se non ne contraddicono il significato profondo. Per il primo Zeus è il più anziano dei tre fratelli e vede il suo albero genealogico legarsi ad una stirpe divina che proviene da entità acquatiche atipiche ed inoffensive, ovverosia Oceano e Teti; per Omero, infatti, Oceano è génesis pàvntessi[27], e la sua sposa è theo^n génesis[28]. In Omero poi Zeus condivide il potere assieme ai fratelli Ade e Poseidone (Il. XV, 187), mentre in Esiodo egli è eletto come capo assoluto da un’assemblea di dèi. Egli solo possiede il potere per imprigionare le forze caotiche primordiali.

Abbiamo visto come Esiodo, al contrario, si rifaccia ad una versione diversa del mito, nella quale Zeus è il più giovane dei suoi fratelli ed è rigidamente collocato come apice di una teogonia di tipo ascendente che si apre con una coppia, quella di Urano e Gaia, il cui spessore mitologico è sicuramente più rilevante. Esiodo, naturalmente, non è l’inventore di questo schema teogonico; esso è tipico di diverse mitologie di ambito anatolico e mesopotamico. Anche in queste regioni siamo di fronte alla riproposizione di «uno schema che parte da entità immani e precosmiche, le quali del cosmo saranno peraltro le fondamenta immancabili, allorché la vittoria degli dei giovani avrà per così dire reificate quelle medesime, primordiali presenze»[29].

La Teogonia racconta il progressivo istaurarsi dell’ordine, dalla nascita del Cosmo dal Caos iniziale, fino al suo assetto definitivo sotto l’egida di Zeus.  Ma come Esiodo intenda questa entità, quale sia la sua essenza e quale funzione svolga, non è ancora ben chiaro. Gli altri passi in cui appare non riescono ad illuminare la questione (cfr. vv. 700, 814), anche se il West ha voluto dare un senso a tal entità vedendo nella parola Chasma (v. 740) un sinonimo di Chaos[30]. Il Chaos non è da intendersi come lo intendeva la tarda classicità, un ammasso ancora indiviso e indistinto, rudis indigestaque moles[31] come lo definiva Ovidio. In Esiodo è piuttosto una voragine abissale che dà origine ad entità anch’esse di carattere abissale. Come abbiamo visto dal Chaos nacquero Erebo (l’Oscurità primordiale) e nera Notte. E dalla Notte nacquero l’Etere (lo spazio luminoso superiore) e il Giorno. La Notte poi dà inizio ad una generazione di entità negative fino alla Discordia e a questo punto si può considerare conclusa l’attività generativa del Chaos. Infatti in Esiodo il Chaos non è il principio degli dei olimpici, né del mondo concreto che invece fanno capo piuttosto a Gaia, la terra, la quale svolge il ruolo di figura materna. Essa genera Urano, il cielo, e da questa coppia discendono gli dei, i titani ed altre figure più o meno spaventose: i ciclopi e i centimani, figure che incarnano ancora la turbolenza ed il disordine, ma che s’inseriscono in un cammino di conquista progressiva di norma e di ordine. In generale gli studiosi sono d’accordo sul fatto che non si possa considerare il Chaos solamente come un’entità negativa, come spazio vuoto, regno del disordine, in cui le entità vengono in essere e trovano la propria collocazione. A ragione ci si può forse limitare a dire che il Chaos in Esiodo rappresenti la realtà ancora priva di forma e per questo non ha ancora acquisito «la pienezza e la specificità dell’essere»[32]. Nei vv. 736-740 sembra proprio che il Chaos trovi una propria collocazione spaziale, dando al contesto non solo una visione cosmogonica da parte dell’autore, ma anche una visione cosmologica. Esso è concepito come il luogo tra la terra ed il tartaro, dove sono le scaturigini delle quattro parti del mondo: terra, tartaro, mare e cielo. Per Esiodo, ma vale lo tesso per Omero, la Terra è un disco circondato da un fiume circolare, Oceano, senza origine e senza fine perché si getta in esso stesso. Al di sopra della Terra vi è il Cielo detto di “bronzo” poiché inalterabile e solido, mentre la terra fonda la propria stabilità su delle possenti radici. J. P. Vernant vede nella descrizione di Esiodo lo schema di un’immensa giara che termina con un collo stretto, da dove spuntano le radici del mondo[33]. Nella giara si trovano turbini di vento caotico; è il regno del disordine che con l’avvento di Zeus viene definitivamente tappato in modo che non possa più avere nessun contatto con il mondo reale.

«Per primi risvegliarono l’aspra battaglia / Cotto, Briareo o e Gige insaziabile di lotta, / loro che dalle mani robuste trecento pietre / scagliavano fitte e con i dardi coprivano i Titani; / e sotto la terra dagli ampi cammini / li inviarono e li avvinsero in legami terribili, / dopo che con le mani li vinsero, per quanto superbi, / tanto in profondità sottoterra quanto dalla terra il cielo è distante: / tanto vi è dalla terra al Tartaro tenebroso. / Inaftti un’incudine di bronzo per nove notti e nove giorni / precipitando giù dal cielo, nel decimo giungerebbe a terra;/ [pari a sua volta è lo spazio dalla terra al Tartaro tenebroso;] / di nuovo un’incudine di bronzo per nove notti e nove giorni / cadendo dalla terra, nel decimo giungerebbe al Tartaro. / Un recinto di bronzo gli corre attorno; in giro a esso la notte / in tre file si versa circondandogli il collo, mentre al di sopra / le radici nascono dalla terra e dal mare infecondo.»[34]

J. Clay rimane stupefatto di come Esiodo presenti in questo punto della sua opera, una descrizione così precisa di luoghi la cui conoscenza effettiva da parte dell’autore risulta ragionevolmente impossibile[35]. G. Arrighetti fa notare come la descrizione si orienti ora in senso “orizzontale”, procedendo da “un più vicino” ad “un più lontano”, ora in senso “verticale”, da “un più alto” ad “un più basso”. Se da un lato infatti il paragone dell’incudine che precipita (vv. 722-725) richiama l’immagine del Chasma di profondità infinita, dall’altro il recinto di bronzo che corre intorno alla regione (VV. 726-728) orienta l’immaginario del lettore lungo un percorso orizzontale interrotto solo dalla tensione verso l’alto delle radici della terra e del mare (v. 727)[36]. È interessante anche notare la metafora dell’incudine di bronzo che sta ad indicare qualcosa di veramente pesante e crea un’immagine davvero suggestiva e allo stesso tempo trasmette in maniera poetica quelle che erano le conoscenze fisiche dell’epoca a proposito dell’accelerazione dei corpi in caduta. La nozione di accelerazione di gravità è stata introdotta dalla fisica newtoniana, fino ad allora e quindi per tutta l’antichità, si riteneva che i corpi cadessero a terra per una loro intrinseca pesantezza. L’osservazione empirica del fenomeno aveva portato a ritenere che la velocità di caduta di un grave era direttamente proporzionale al suo peso. Per Esiodo la caduta dell’incudine di bronzo, che raggiunge il fondo in un intervallo lunghissimo (nove giorni e nove notti per abbattersi al suolo nel decimo giorno), sta ad esprimere la quasi inimmaginabile profondità infinita “dello spazio” che separa la terra dal Tartaro.

Ritornando ora al racconto notiamo che l’amplesso divino tra Gaia e Urano attraverso il loro congiungimento non assicura nessuna stabilità ed ordine al cosmo fino a quando Crono non evira il padre. Cessa allora l’amplesso divino, i primi elementi trovano la loro definitiva collocazione; il cielo e la terra non si uniranno più e rimarrà ciascuno al proprio posto e lontani per sempre. C’è da notare però che le nascite per partenogenesi sono meno positive di quelle in cui l’elemento maschile contribuisce alla generazione. Infatti Ge, la terra, da sola genera Urano (cielo), Monti e Mare, ma con l’intervento di Urano grazie ai favori di Eros, origina Oceano, Hiperione, Cronos e i Titani che faranno l’universo abitato dagli uomini e dagli dèi. Sono molte le atrocità cantate da Esiodo e avvenute prima dell’ordine e della giustizia di Zeus, ma tali sciagure fanno parte di un tempo e di un mondo che non ha nulla a che fare con il cosmo attuale.

Il fatto che il mondo acquisti un proprio ordine, solamente dopo la cessazione di un amplesso divino, è un motivo che già si ritrova in Omero quando dice che Oceano e Teti, dalla cui unione era nato il mondo «da molto tempo stanno lontani dall’amore e dal letto»[37]. Anche il mito pelasgico della creazione, come abbiamo visto, racconta della fine dell’originaria unione tra Eurinome ed Ofione, quando lo respinge nelle caverne sotterranee.

In conclusione possiamo dire che la Theogonia di Esiodo è stato il primo ed allo stesso tempo uno dei più importanti tentativi di proporre una visione sistematica del mondo fisico e di quello divino.  Il linguaggio mitico di Esiodo confonde, ma non annulla la struttura logica del racconto, sebbene siamo ancora lontani da un vero e proprio sistema filosofico[38]. L’opera di Esiodo quindi rivela anche certi tratti razionalistici che la allontanano da determinate concezioni primitive, egli non s’interessa del caso particolare, ma al principio ed al sistema del cosmo e attraverso i miti riesce a spiegare la natura e l’origine del mondo. Siamo però ancora nel contesto di una mentalità prefilosofica; i fruitori dei miti erano consapevoli delle misteriose forze dell’universo che influenzavano la vita degli uomini; come agricoltori i greci erano legati al suolo, alla pioggia, al ciclo delle stagioni; inoltre come naviganti erano soggetti al tempo atmosferico, al ciclo delle maree, al moto degli astri. Vivevano in simbiosi con tali forze che spesso ne determinavano la morte o la sopravvivenza.

 Nella sistemazione delle varie divinità, Esiodo non segue una struttura gerarchica di tipo teologico, se non per quel che riguarda Zeus, la cui nascita chiude i cicli delle due grandi generazioni. Grazie alle genealogie, Esiodo assegna un proprio posto a tutte le divinità in un sistema ben ordinato che rappresenta l’infinita varietà dei fenomeni naturali; attraverso poi l’origine genealogica di ogni divinità, ci dice anche qualcosa sulla loro natura.

Alla prima generazione i cui capostipiti sono Gaia e Urano, appartengono non solo divinità importanti, ma anche divinità minori, come Theia, Mnemosyne e Febe; figure minori rispetto all’impianto teologico ma rappresentative nella visione del mondo. La genealogia di ciascuna divinità già racchiude il senso che essa ha nel cosmo, ad esempio: Theia è la divinità della luce, figura della verità non a caso la sua radice è la stessa del verbo theiazo, ovvero “l’attività di profetizzare”; Mnemosyne è la memoria; Phebe ha la stessa radice di phoibesis, il vaticinio; è proprio grazie a loro se l’uomo può accedere alla conoscenza.

Esiodo comunque non mostra alcun sentimento di particolare pietas ad eccezione delle muse che sono le sue dirette protettrici. Egli, in quanto poeta, si considera il tramite della rivelazione e dell’insegnamento della verità. Nel mondo da lui descritto tutto ha compimento in Zeus, personificazione e custode delle leggi da cui l’universo è governato. Non si può però dire che il poeta di Ascra non nutra una fede sincera nelle forze divine, poiché tutto l’impianto teogonico apparirebbe privo di qualsiasi senso, se Esiodo non credesse nell’esistenza delle divinità elencate. Attraverso tutta questa genealogia il Nostro non fa altro che «descrivere ciò che esiste, ciò che è vivo e importante nel mondo»[39].

L’ordine del cosmo si riflette prima di tutto nell’ordine del tempo: sia lineare, con lo sviluppo delle generazioni divine, sia ciclico attraverso il perenne alternarsi della luce e delle tenebre, del Giorno e della Notte[40].

Pertanto possiamo dire che lo scopo della teologia esiodea è quello di spiegare il perché “la realtà è quella che è” e assolve questo compito attraverso «un sistema di entità divine, organicamente connesse tra loro, ciascuna delle quali, col suo giungere all’esistenza e col suo agire, da ragione dei fatti di cui la realtà si compone»[41]. Per realtà non s’intendono solamente i fenomeni naturali, ma anche quelli sociali. Così non possiamo fare a meno di condividere l’opinione del Vernant, che vede nelle teogonie i riflessi di un’organizzazione sociale arcaica; essi sono veri e propri miti di sovranità; esaltano la potenza di un dio attraverso l’epopea della sua nascita, delle sue lotte ed del suo trionfo.[42] L’ordine è proprio il frutto della vittoria di questo dio sovrano che stabilisce la sua supremazia su un cosmo non più abbandonato all’instabilità e alla confusione.

Non meno importante è poi notare che nel ciclo omerico, gli eroi, le loro opere e le loro imprese ci sono descritte in un mondo luminoso, splendente, in cui il fulgore delle divinità impedisce qualsiasi zona d’ombra, di buio. In Esiodo invece il quadro diventa alquanto realistico. Ciò che circonda l’uomo spesso è causa di dolore e acuta sofferenza, l’ordine divino lascia il posto all’orrido e l’informe, ma il poeta di Ascra non può fare a meno di descrivere queste zone d’ombra del cosmo, il suo scopo è sempre quello di “cantare” la verità. Come avvenga che questo lato oscuro dell’essere sia possibile anche sotto il dominio di Zeus, rappresenta per Esiodo un difficile problema religioso. Egli distingue nettamente nella sua genealogia, fra due diverse stirpi che non si mescolano mai tra loro: da un lato i discendenti di Nyx, la Notte, che questa ha generato da sola senza un padre; dall’altro lato tutti gli altri dei. I discendenti della notte sono Invidia, Inganno, Vecchiaia, Contesa, Fatica, Fame, Dolore, Assassinio ecc., esseri che insidiano e minacciano la vita dell’uomo. È di qui che deriva quel dualismo del pensiero greco che condurrà alla dottrina degli opposti, con cui Anassimandro, Eraclito, Empedocle ecc. cercano ognuno in forma diversa, di spiegare il mondo.[43]

L’universo quindi consiste in una gerarchia di potenze che rispecchia appieno la struttura della società umana. Tale sistema però non è inserito in un raffigurazione spaziale, né può essere quindi collocato in una posizione reale, né ha un’estensione, né un movimento. Il mito non si preoccupa tanto di delineare una visione fisica del mondo, ma di illustrare i rapporti gerarchici di forza che determinano ruoli di dominazione e sottomissione. Gli aspetti spaziali si giocano su livelli cosmici e non su proprietà geometriche. L’ordine del cosmo si è sviluppato non a partire da una necessità propria degli elementi che costituiscono l’universo, ma il tutto viene inteso come l’atto concreto di un artefice che il mito incarna nel sovrano dell’edificio cosmico. La sua monarchia determina quell’equilibrio gerarchico che non darà più modo al chaos di  invadere il mondo.

Questa concezione di riflesso, che traspare nei miti omerici ed esiodei, non è altro che il retaggio di un antica società, quella micenea, in cui l’anax, ovvero il re, era una figura politico-religiosa. Ben si ricollega a questa figura il mito della sovranità celeste che pone alle dipendenze del re l’ordine delle stagioni, i fenomeni atmosferici, la fecondità della terra, del bestiame e delle donne. Già al tempo di Omero e di Esiodo, tale situazione sociale era mutata da diversi secoli, nelle loro opere però, poiché attingono a materiale molto antico, questo retaggio rimane incastonato come un fossile.

Tale situazione, se da una parte dava alla narrazione un carattere sacrale e la rendeva degna di fede, poiché proveniente direttamente da una mitica età dell’oro, dall’altra rappresentava una liturgia non più comprensibile. Dopo il crollo della monarchia micenea, gli antichi rituali monarchici che mettevano in connessione le imprese mitiche attribuite ad un sovrano con l’organizzazione dei fenomeni naturali, non erano più evidenti. Già in Esiodo l’ordine del cosmo è dissociato da qualsiasi funzione regale e rituale. Nelle stesse genealogie si può scorgere come il mondo visibile sia il frutto non di un agente, ma di un processo generativo da parte di potenze: cielo, terra, mare, luce, notte; si intravede, se così si può dire, una legge di sviluppo spontaneo attraverso la quale si è determinato il mondo. Ouranos, Gaia, Pontos, rappresentano certamente delle realtà fisiche dal punto di vista fenomenologico, ma allo stesso tempo agiscono in modo antropomorfico visto che si accoppiano e generano. In Esiodo si individuano due livelli di comprensione: uno rappresentato dal dato oggettivo, per esempio il fatto che la separazione della terra dalle acque è prima di tutto un fatto naturale nel mondo visibile; il secondo livello di comprensione invece è dato dalla narrazione dello stesso fatto, come una procreazione divina in un tempo ancestrale. Come giustamente fa notare il Vernant: «Malgrado lo sforzo di delimitazione concettuale che vi si nota, il pensiero di Esiodo resta prigioniero del suo quadro mitico»[44].

La Theogonia è da ritenersi essenzialmente un’opera poetica, essa non fu mai considerata un libro sacro, alla stregua per esempio dei Veda indiani, né come un’opera connessa con il culto, come per esempio il poema babilonese della creazione; nonostante questo però, assieme ai poemi omerici, ha goduto di un ruolo particolarmente importante nella fissazione della tradizione mitica greca. I loro racconti sono diventati dei modelli canonici per tutti quegli autori che li hanno seguiti e per il pubblico che li ha ascoltati o letti. È attraverso questi poemi che gli antichi greci hanno costruito l’immagine dell’intero universo visibile abitato da uomini e dèi. Prima di tutto vi era il Caos, da cui era stata tratta la materia per costruire il Cosmo e questo Caos una volta costituito il Cosmo era stato compreso nella parte inferiore di esso ed era diventato il Chasma, l’abisso. Proprio nel Chasma affondano i pilasri su cui poggia il disco terrestre. Queste fondamenta del mondo si immergevano nelle acque del Tartaro in cui rifluivano tutte le acque della terra. La terra era circondata da un grande oceano, e sul bordo dell’oceano la volta celeste si poggiava tutta intorno e come un immenso coperchio ricopriva il l’orbe terracqueo.

Sicuramente però le tradizioni orali cosmogoniche e teogoniche che circolavano in epoca arcaica dovevano essere assai numerose e dovevano presentare anche diverse divergenze rispetto alla Theogonia. I frammenti che ci sono pervenuti ci riportano l’esistenza di una Titanomachia composta da Arctino di Mileto, poeta vissuto secondo la tradizione al tempo delle prime Olimpiadi (VIII sec. a.C.). Nella sua opera oltre a trattare della guerra tra gli dei olimpii ed i Titani, illustra anche l’origine delle cose[45]. Alcuni autori attribuisco quest’opera a Eumelo di Corinto, attivo nella seconda metà del secolo VIII a.C. ma nulla ci vieta di ritenere che possano essere stati entrambi autori di due diverse titanomachie[46].



[1] I passi dell’Iliade in cui sono presenti degli indizi cosmologici sono V, 748-769; VIII, 13-27; VIII, 478-486; XV, 187-195; XXI, 190-199; per un’esaustiva argomentazioni su questi passi si veda E. A. Havelock, The cosmic Myths of Homer and Hesiod, in «Oral Tradition», 2 (1987), pp. 31-53.

[2] Hom., Il., XXI, 196-197.

[3] Hom., Il., VIII, 10.

[4] Hom., Il., XVIII, 849.

[5] Cfr. H. L. Lorimer, Stars and Constellation in Homer and Hesiod, «The Annual of the British School at Athens», 46 (1951),  p. 92.

[6] Cfr. Hesiodus, Theogony,  M. L. West (ed.),Oxford, 1966, p. 14.; R. A. Sarno, Hesiod: From Chaos to Cosmos to Community, in «The Classical Bulletin», 45 (1969), p. 65.

[7] Esiodo, Theog., vv. 24-28; nella Grecia arcaica le Muse erano tre e si chiamavano Melete, Mneme, Aoide; erano venerate in un antichissimo santuario sul monte Elicona. Melete indica la disciplina indispensabile all’apprendistato del mestiere di aedo, Mneme è la funzione psichica che permette di improvvisa e recitare, Aoide è il prodotto finito ovvero il poema (Paus. IX, 29, 2-3).

[8] Esiodo, Theog., v. 38; per questa formula tipica del sapere mantico cfr. Il., I, 70.

[9] E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1973, pp. 116.

[10] M. Detienne, Les Maîtres de vérité dans la Grèce archaïque, Paris, 1973, pp. 21-30.

[11] Sembra proprio che fin dall’antichità la parola Musa abbia avuto un doppio significato. Come nome proprio Musa e come nome comune riferendosi alla “parola cantata”, cfr. . Idem, p. 3.

[12] Hesiodus, Theogony,  M. L. West (ed.),Oxford, 1966, p. 159.

[13] E.  R. Dods, I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1973, pp. 148-149.

[14] Cfr. C. Miralles, L’iscrizione di Menesiepes, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», N.S. 8 (1981).

[15] E. R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Firenze, 1973, pp. 148-149.

[16] «Diventa in tal modo probabile che un accumulo di eccitazione in quelle aree dell’emisfero destro che servono alla musica strumentale si propaghi nelle aree adiacenti che servono ad allucinazioni uditive divine, o viceversa. Di qui lo stretto rapporto esistente fra musica strumentale e poesia, e fra entrambe e le voci degli dèi. La musica, quindi, potrebbe essere stata inventata come eccitante neurale delle percezioni allucinatorie degli dèi e della loro voce quando si trattava di prendere decisioni in assenza della coscienza. Non è dunque un’oziosa coincidenza storica il fatto che il nome stesso della musica derivi dalle sacre dee chiamate Muse. Anche la musica ha avuto infatti inizio nella mente bicamerale».J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale, Milano, 20022, p. 437.

[17] Esiod., Theog., 1-35; qualora ci si voglia fare un’idea sui luoghi in cui visse  Esiodo si legga il contributo di P. W. Wallance, Hesiod and the Valley of Muses, in «Greek, Roman and Byzantine Studies», 15 (1974) pp. 5-24.

[18] Esiod., Theog., 36-105.

[19] Esiod., Theog., 126-128.

[20] Esiod., Theog., 176-182.

[21] Esiod., Theog., 459-464.

[22] Esiod., Theog., 471.

[23] Esiod., Theog., 821-869.

[24] Esiod., Theog., 881-885.

[25] Esiod., Theog., 886.

[26] Hom., Il., XV, 187-193.

[27] Hom., Il., XIV, 246.

[28] Hom., Il., XIV, 201, 302.

[29] U. Bianchi, Per la storia della teologia dei Greci: la «Teogonia» di Esiodo, in La coscienza religiosa del letteratopagano, Pubblicazioni del D.AR.FI.CL.ET., Università di Genova, Facoltà di Lettere, N.S. 104, Genova, 1987, pp. 10-11.

[30] Cfr. Hesiodus, Theogony,  M. L. West (ed.),Oxford, 1966, p. 192 ssg. Si veda anche  F. Solmsen, Chaos and «Apeiron», in «Studi Italiani di Filologia Classica», N.S. 24 (1950), pp. 235-248 poi in ID., Kleine Schrifsten, I, Hildesheim, 1968, pp. 68-81; D. Bremer, Licht und Dunkel in der frühgriechischen Dichtung. Inerpretationem zur Vorgeschichte der Lichtmetaphysik, in «Archiv für Begriffsgeschichte», Suppl. I, Bonn, 1976, pp. 169-172.; J. Bussanich, A Theoretical Interpretation of Hesiod’s Chaos, in «Classical Philology», 78 (1983), pp. 212-219; R. Mondi, The Ascension of Zeus and the Composition of Hesiod’s «Theogony», in «Greek Roman and Byzantine Studies», 25 (1984), pp. 325-344.

[31] Ovidio, Metamorphoses, I, 7.

[32] Cfr. Esiodo, Opere, G. Arrighetti (ed.), Torino, 2007, pp. 325-326.

[33] Cfr. J. P. Vernant, Mito e pensiero presso I Greci, Torino, 2001, p. 204-205; la spiegazione del perché i Greci avessero codificato l’immagine dell’origine del mondo in una giara è spiegata dal fatto che i loro antenati sotterravano nel suolo del loro celliere delle grandi giare, che potevano contenere sia i frutti della terra che i cadaveri dei morti di casa. Il mondo sotterraneo simboleggiato dalla giara è quello da cui germogliano i semi delle piante e riposano i morti.

[34] Esiod., Theog., 713-728.

[35] Cfr. J. S. Clay, The Hecate of the Theogony, in «Greek Roman and Byzantine Studies», 25 (1984), pp. 144 e sgg..

[36] Cfr. Esiodo, Opere, G. Arrighetti (ed.), Torino, 2007, pp. 192 e sgg.; Vedi anche Esiodo, Theogonia, E. Vasta (ed.), Milano, 2004, p104-105, Nota 135.

[37] Hom., Il., XVI, 206-207.

[38] J. P. Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Torino ,1981, pp. 204-205.

[39] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, op. cit., p. 76.

[40] Esiod., Theog., 744-756.

[41] Esiodo, Opere, op. cit, p. 282.

[42] Cfr. J. P. Vernant, Le origini del pensiero Greco, Milano ,2007 , p. 102.

[43] Cfr. B. Snell. La cultura greca e le origini del pensiero europeo, op. cit., p. 80.

[44] Cfr. J. P. Vernant, Le origini del pensiero greco, op. cit , p. 109.

[45] Cfr. A. Barnabé, Poetae Epici Graeci, I, Stuttgart, 1987, frr. 1-11.

[46] Cfr. M. L. West, «Eumolos»: a Chorinthian epic Cycle?, in «Journal of Hellenic Studies», 122 (2002), PP. 110-118 e 129 sg. Per quanto riguarada la Titanomachia vedi J. Dörig – O. Gigon, Der Kampf der Götter und Titanen, Olten, 1961, PP. VI-XXIV.

 

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