The mind beyond the mind - HD School Generation -


La meditazione nel sufismo

14.05.2014 15:49

Per il sufi, la radicale debolezza umana è strettamente connessa al sé inferiore. I santi hanno superato la loro natura inferiore, e i novizi cercano di sfuggirle. La meditazione è essenziale negli sforzi del novizio di purificare il suo cuore. «La meditazione per un’ora», diceva un antico maestro sufi, «è meglio che il culto rituale per un intero anno».

La principale forma di meditazione tra i sufi è lo zikr, che significa «ricordo». Lo zikr per eccellenza è La ilàha illa ‘llah: «Non c’è alcun dio all’infuori di Dio». Bishi al- Hafi, un antico sufi di Bagdad, diceva: «Il sufi è colui che mantiene puro il suo cuore»; la via a questa purezza totale e permanente è il ricordo costante di Dio. Maometto stesso, il Profeta, diceva: «Per ogni cosa c’è una vernice che porta via la ruggine; e la vernice del cuore è l’invocazione di Allah». Il ricordo di Dio attraverso la ripetizione del Suo nome purifica la mente del meditatore e apre il suo cuore a Lui. Uno zikr, per esempio, accompagna sempre la danza del sufi; esso accresce l’efficacia della danza nel mantenere il ricordo di Dio dappertutto. «La danza apre una porta nell’anima a influenze divine», scriveva il sultano Walad, figlio di Rumi. «La danza è buona quando sgorga dal ricordo dell’Amato».

Lo zikr è anche una meditazione solitaria. All’inizio, è una ripetizione orale, in seguito silenziosa; in un ma¬noscritto del quattordicesimo secolo è scritto: «Quando il cuore comincia a recitare, la lingua deve fermarsi». Lo scopo dello zikr, come in tutti i sistemi meditativi, è di superare lo stato naturale della mente di dispersione e disattenzione. Dominata la sua mente, il sufi può concentrarsi su Dio. Secondo il sufismo, gli esseri umani che seguono la coscienza normale sono «addormentati in un incubo di desideri inappagati», ma con la trascendenza raggiunta tramite la disciplina mentale questi desideri scompaiono.

Lo stato normale di attenzione - sporadica e irregolare, leggera e sbadata - è il modo del profano. Il ricordo, che ancora la mente del sufi a Dio, focalizza la sua attenzione e gli permette di allontanarsi dai richiami del mondo. Un sufi egiziano del nono secolo così commentava gli sforzi speciali che compie il meditatore: «Le masse si pentono dei peccati, mentre l’eletto si pente della distrazione». Dopo una pratica intensiva di meditazione o di salmodia di gruppo, il rilassamento che segue può portare un riflusso delle vecchie abitudini mentali. Il grado di una tale ricaduta serve come indicatore del progresso spirituale: nessuna virtù è acquisita se le abitudini e le reazioni condizionate riprendono il controllo non appena l’intensità meditativa diminuisce.

C’è una interazione tra sforzo e grazia sul cammino del sufi. Un itinerario dell’undicesimo secolo del cammino sufi scritto da al-Qushari elenca le tappe spirituali (maqam) dovute ai propri sforzi. Questi atti purificatori preparano il sufi a raggiungere stati (hai) che sono indi- pendenti dal suo sforzo personale, e sono dono di Dio.

La prima tappa è quella della «conversione», in cui il sufi risolve di abbandonare la vita mondana e di dedicarsi alla ricerca spirituale; segue una serie di sforzi di auto-purificazione, tra cui la lotta aperta contro la propria stessa natura carnale, favorita dal ritiro in solitudine, per sbarazzarsi delle abitudini maligne. In questa fase, il sufi può ridurre al minimo il suo coinvolgimento in attività mondane e rinunciare persino a piaceri sani che ordinariamente gli sono permessi; può diventare volontariamente povero, accettare le sue tribolazioni come prove di purezza e praticare il contenimento con qualunque cosa giunga sulla sua strada. Quest’ultima stazione si fonde col primo stato donato da Dio, l’essere soddisfatto delle cose così come sono stabilite da Dio.

La premessa centrale che sorregge questi atti di rinuncia permea il pensiero sufi: Abu Said di Mineh la formulava come segue (Rice 1964, p. 34): «Quando sei preso da te stesso, sei separato da Dio. La via per Dio è di un solo passo; il passo fuori da te stesso». Al-Ghazali, un giurista del nostro secolo convertito al sufismo, commentava così l’essenza del cammino sufi (Nicholson 1929, p. 39):

Il dono della dottrina consiste nel superare gli appetiti della carne e nello sbarazzarsi delle sue malvage inclinazioni e qualità vili, in modo che il cuore possa essere liberato da tutto tranne che da Dio; e il mezzo di purificazione è dhikr Allah, la commemorazione di Dio e la concentrazione di ogni pensiero su di Lui.

Sulla strada verso la soppressione del desiderio, il sufi si sottopone a stati progressivi tipici in molti altri tipi di me¬ditazione. Il qurb è la sensazione della vicinanza costante di Dio indotta dalla concentrazione su di Lui; nel mahab ba, il sufi perde se stesso nella consapevolezza del suo Amato. Tra i frutti del mahabba ci sono le visioni e la «posizione di unità», dove zikr (il ricordo), zakir (colui che ricorda) e mazkur (colui che è ricordato) diventano uno.

Un buddhista theravada potrebbe vedere queste esperienze come ingresso nel primo jhana. I sufi riconoscono di avere raggiunto la piena padronanza nel momento in cui l’attenzione dello zakir si fissa sullo zikr senza sforzo, cacciando gli altri pensieri dalla mente. I sufi vedono questo stato, chiamato fana, che significa «scomparire in Dio», come un puro dono della grazia, nel quale lo zakir è «perduto nella Verità». Questo stato si raggiunge, nota Arberry (1972), quando «il sé come il mondo sono stati ripudiati». La cessazione di entrambe le consapevolezze, interna ed esterna, nella focalizzazione totalizzante sullo zikr, segna il punto di incontro tra l’immersione del sufi nel fana e lo jhana dei buddhisti.

La pratica secondo il modo sufi si estende a ogni attimo di veglia, come è evidente nelle direttive di un ordine proto-sufi (Bennett 1973, p. 34) : «Sii presente a ogni respiro. Non lasciare vagare la tua attenzione per la durata di un singolo respiro. Ricordati di te stesso sempre e in tutte le situazioni». L’estensione della pratica a tutte le situazioni culmina nel baqa, il mantenersi a un certo grado di coscienza fana nel mezzo delle attività ordinarie. Il sufi al-Junaid di Bagdad, vissuto nel decimo secolo, dà una definizione classica di fana come «morire al sé», che trasporta nel baqa, «vivere in Lui». In questa transizione, il sufi non smette di esistere come individuo; anzi, la sua natura diviene perfetta. Il sufi Idries Shah (1971) parla di questo cambiamento come di «una dimensione supplementare dell’essere» che opera parallelamente alla cognizione ordinaria, e la chiama «coscienza oggettiva». Altri parlano di una trasformazione interiore nella quale il sufi acquista «riflessi che si conformano alla realtà spirituale».

I sufi sostengono che il loro insegnamento non deve mai essere fissato dogmaticamente, ma restare sufficientemente flessibile per adattarsi ai bisogni di ogni persona, circostanza e luogo specifici. Secondo la formula di un maestro moderno, il sufi Abdul-Hamid (Shah 1972, p. 60): «L’opera è portata a termine dal maestro in accordo con la sua percezione della situazione in cui si trova. Questo significa che non c’è manuale, né sistema, né metodo, al di fuori di quello che appartiene alla scuola del momento». Sono stati redatti molti manuali per il medi- tatore sufi in epoche e luoghi differenti: uno del genere è la Regola sufi per novizi di Abu al-Najib (1975), del dodicesimo secolo, un manuale classico del cammino sufi. Benché questa regola sufi possa avere poca somiglianza con la pratica contemporanea, ci permette di dare un’u-tile occhiata agli elementi specifici di questo metodo e di fare istruttive comparazioni con altri cammini spirituali.

Ibn al-Najib (1097-1168) mise per iscritto le sue regole per la condotta dei principianti nell’ordine Suhrwardi, al quale apparteneva; il suo intento è paragonabile a quello del Visuddhimagga. Benché queste regole riguardino un gruppo determinato in un’epoca e in una zona specifica, sono state usate in tutto il mondo islamico e sono divenute la base per successive opere didattiche sufi. Queste regole offrono una delle molte variazioni del tirocinio sufi, e molto spesso riecheggiano consigli di meditatoli buddhisti, induisti, cabalisti e protocristiani. Pro¬prio come per la bhakti si dice di restare nel satsang, la comunità in cammino, al-Muridin consiglia: «Il sufi do-vrebbe associarsi con persone del suo tipo e con coloro da cui può trarre beneficio». Il novizio dovrebbe attaccarsi a un maestro qualificato, o shayk, seguendo costan¬temente la sua direzione e obbedendogli in tutto. Questo servizio è esaltato come la migliore vocazione per l’aspirante; il servo, si dice, viene subito dopo lo shayk stesso nella gerarchia. Come nel Visuddhimagga e nel Discorso della Montagna di Cristo, le regole del novizio dettano: «Non ci si deve preoccupare dei mezzi di sostentamento, né darsi da fare per cercarli, raccoglierli e conservarli», perché il Profeta stesso «non conservava nulla per il giorno dopo». Bramare cibo, abiti o un tetto ostacola la pu¬rezza del sufi, perché Dio ha rivelato: «I cuori che sono legati ai loro desideri sono stati sottratti a Lui». Benché il celibato non sia richiesto ai sufi, queste regole del dodicesimo secolo impongono: «Nei nostri tempi è meglio evitare il matrimonio e sopprimere il desiderio con la disciplina, il digiuno, la veglia e i viaggi». Infine, il sufi deve essere un musulmano per eccellenza, osservando tutte le regole della fede alla lettera, perché «più è santo l’uomo, più severamente sarà giudicato».

Ogni maestro, ordine e gruppo sufi ha i propri metodi, o una combinazione di tecniche di insegnamento. I modi variano, ma lo scopo è il medesimo. Mahmud Sha- bastri, un maestro autore del Giardino Segreto, lo esprime in questo modo:

Giunge al segreto dell’unità

l’uomo che non ha perso tempo nelle tappe sulla strada.

Il tuo essere non è altro che spine ed erbacce, ripuliscile tutte da te stesso.

Va’ a spazzare la camera del tuo cuore, preparala a essere la dimora dell’Amato.

Quando te ne sarai andato, Egli vi entrerà,

in te, vuoto di te stesso, Egli mostrerà la Sua bellezza.

La dottrina sufi sostiene che gli uomini sono legati dai loro condizionamenti - le spine e le erbacce - che li tengono lontani da Dio. L’uomo comune è intrappolato nella sofferenza dai suoi condizionamenti. Abitudini intellettuali, sentimentali e percettive dure a morire governano le reazioni umane nei confronti del mondo; l’uomo è schiavo della sua conformazione. Le persone sono come addormentate, ma non lo sanno; perché diventino coscienti della loro condizione - il primo passo per sfuggir la - hanno bisogno di uno shock. Una delle funzioni dei racconti didascalici sufi, come la storia degli uomini ciechi e dell’elefante, è di procurare tale shock. Questi racconti hanno diversi piani semantici, alcuni nascosti alla maggior parte degli ascoltatori, alcuni ovvi. Non tutti ottengono la stessa lezione dalle storie, perché quello che l’ascoltatore percepisce dipende dal suo stadio sul cammino sufi. Il maestro abile usa esattamente la storia giusta al momento giusto, così da impartire un insegnamento per il quale l’allievo è maturo.

Tutti gli shock e le lezioni di questo genere aiutano l’aspirante sufi sulla via verso la purificazione interiore. Secondo la psicologia sufi, i nostri impulsi abituali sono la materia prima dell’anima inferiore, o nafs, che deve essere disciplinata e controllata continuamente, altrimenti conduce il meditatore al male e lontano da Dio. Al-Muridin consiglia di superare l’influenza del nafs con l’osservazione distaccata del suo operare. Il nafs, dice un proverbio, è come un idolo; guardarlo con simpatia è idolatria; guardarlo con attenzione minuziosa è culto. Attraverso un’analisi distaccata dei propri stimoli, impulsi e desideri più bassi, il sufi può spezzare il loro potere sulla sua mente e rimpiazzare le qualità negative con quelle virtuose.

Al-Muridin commenta nelle sue regole che «il sufi esperto è in una posizione di stabilità, ed è immune dagli effetti degli stati mutevoli della mente o da circostanze difficili». Questa serenità permette al sufi perfetto di essere nel mondo ma non del mondo. Una calma esteriore, tuttavia, può non riflettere l’estasi interiore di una stretta comunione con Dio. Uno shayk moderno descrive lo stato supremo del sufi come «essere interiormente ubriaco ed esternamente sobrio».

Un vecchio maestro include questi nella sua lista degli attributi del perfetto sufi: la sensazione di essere interamente sottomesso a Dio piuttosto che alla propria volontà; il desiderio di non avere alcun desiderio personale; la «grazia» - vale a dire, l’esecuzione perfetta di atti al servizio di Dio; pienezza di verità in pensieri e azioni; mettere gli interessi degli altri prima dei propri; farsi servo nel completo disprezzo di sé; il costante ricordo di Dio; generosità, intrepidità, e capacità di morire nobilmente. Ma i sufi possono anche rinunciare a formule così specifiche per misurare il progresso spirituale - o, peggio, al tentativo di stimare i risultati altrui tramite una lista di controllo di questo genere.

Chi giudicasse gli altri dovrebbe tenere conto del consiglio che deriva da questa storia sufi, nuovamente raccontata da Idries Shah (1971, p. 75):

Yaqub, figlio del Giudice, disse di avere un giorno interrogato Bahaudin Nawshband in questo modo: «Quando ero in compagnia del Murshid di Tabriz, egli mi  faceva regolarmente segno che non bisognava parlargli, quando era in una condizione di particolare riflessione. Ma tu sei disponibile a noi in ogni momento. Faccio bene a concludere che questa differenza è dovuta alla tua capacità di distacco indubbiamente superiore, poiché domini questa capacità, e non ti sfugge?»

Bahaudin gli rispose: «No, tu cerchi sempre di fare paragoni tra persone e tra condizioni. Cerchi sempre prove e differenze, o somiglianze. Non hai veramente bisogno di tale spiegazione in questioni che sono al di fuori di un tale metro. Modi differenti di comportamento, nei saggi, sono da considerarsi dovute a differenze nell’individualità; non a differenze di qualità».

D. Goleman, La meditazione

—————

Indietro