The mind beyond the mind - HD School Generation -


La meditazione e la cabala ebraica

06.05.2014 09:42

«In ogni religione», scrive il cabalista contemporaneo Z’ev ben Shimon Halevi (1976), «ci sono sempre due aspetti, quello visibile e quello nascosto». L’aspetto visi­bile si manifesta come ritualità, testi scritturali, funzioni religiose; quello nascosto alimenta la luce che dovrebbe illuminare queste forme. Nel giudaismo, gli insegnamenti nascosti sono chiamati cabala. Questi insegnamenti, si dice, ebbero origine con gli angeli, che furono istruiti da Dio. I cabalisti, allo stesso modo degli esseni e di altri gruppi mistici della storia ebraica, identificano le grandi figure dei tempi biblici - Abramo, Davide, i Profeti - come portatori di questa tradizione. Halevi afferma che Joshua ben Miriam, altrimenti conosciuto come Gesù, era un trasmettitore di cabala. Questa tradizione giudaica nascosta affiorò per la prima volta in Europa nel Medioevo, e molte sue diramazioni sono giunte ai giorni nostri.

La cosmologia della cabala postula una realtà a più livelli: ogni livello è un mondo in sé completo, collocato gerarchicamente, e la parte superiore di ognuno corrisponde all’aspetto inferiore di quello sopra. La sfera più alta è quella di Metatron, l’arcangelo capo, che insegna agli esseri umani. Ogni livello incarna uno stato di coscienza, e la maggior parte delle persone esistono ai livelli più bassi - minerale, vegetale, animale. Nella visione cabalistica, un uomo normale è incompleto, poiché è limitato a questi piani più bassi. Egli vive una vita meccanica, legata ai ritmi del suo corpo e alle reazioni e percezioni abituali; ciecamente insegue il piacere e evita il dolore. Anche se può avere qualche barlume delle possibilità più alte, non ha nessun desiderio di elevare il suo livello di coscienza. La cabala cerca di aprire gli occhi del discepolo sulle sue limitazioni e di educarlo a entrare nello stato di coscienza in cui può essere in sintonia con una consapevolezza più alta, non più schiavo del suo corpo e del condizionamento che ne deriva. Per diventare libero, l’aspirante cabalista deve per prima cosa cancellare le illusioni sui giochi meccanici della vita. Poi deve costruire una base per entrare in una coscienza più alta, il Paradiso interiore. Questo, dice Halevi, è il significato allegorico della schiavitù in Egitto: la schiavitù dell’ego limitato, la purificazione del meditatore nel deserto, infine il suo ingresso nella terra di latte e miele.

Per compiere questa impresa, il cabalista deve osservare l’attività dello yesod, la sua mente o ego comune, in modo da vedere in filigrana i suoi punti deboli e le autoillusioni e portare a consapevolezza le forze inconsce che regolano i suoi pensieri e le sue azioni. Per fare ciò, egli si sforza di raggiungere il livello di coscienza detto tiferei, uno stato di chiarezza che è testimone o «osservatore» dello yesod. Da questo stato di elevata consapevolezza di sé deriva quello che talvolta è visto come un angelo guardiano che guida la persona attraverso situazioni difficili con facilità e abilità. Il tiferet è al di là della mente ordinaria che si dibatte tra i problemi quotidiani; qui l’ego è trasceso. E il regno dello spirito, il ponte tra uomo e divino, la porta del Paradiso. E l’anima. Perciò, nello stato di yesod, l’ego domina; quando prevale il tiferet, si realizza uno stato più alto dal quale il meditatore abbassa lo sguardo a contemplare se stesso. Questo stato di coscienza risvegliata in maniera caratteristica, è intravisto solo fugacemente nella vita umana ordinaria. Il cabalista cerca di entrarvi in maniera permanente, e di ascendere a livelli superiori.

Gli elementi specifici dell’esercizio del cabalista - i fondamenti per gli stati superiori - variano da scuola a scuola, benché i cardini siano pressoché costanti. Quan­do l’aspirante cabalista entra in contatto con un maggid, o maestro, il suo esercizio comincia sul serio. Il maestro indirizza a una sincera osservazione di sé, usando i contenuti della sua vita di discepolo come materiale didattico. Ci sono molti sistemi che aiutano il ricercatore a conoscere se stesso, come per esempio un’intricata numerologia che converte lettere e parole ebraiche in un codice numerico suscettibile di interpretazioni mistiche. Uno dei sistemi cabalistici più famosi è 1’«albero della vita», una mappa delle gerarchie e degli attributi delle molte sfere che interagiscono nel mondo e all’interno dell’uomo. L’albero è un’immagine attraverso la quale l’aspirante osserva la propria natura, e una chiave per dischiudere le dimensioni nascoste che guidano la sua vita. Ma una comprensione meramente intellettuale dell’albero resta al servizio dello yesod, dell’ego. Non importa quanto finemente il ricercatore comprende gli enigmi dell’albero, i suoi studi non varranno a nulla se egli trascura il suo sviluppo spirituale. Il prerequisito è l’eserci­zio della sua volontà, la capacità di mantenere l’attenzio­ne senza oscillazioni. Per questo il cabalista si dedica alla meditazione. Scrive Halevi (1976, p. 126). Prepararsi significa essere in grado di ricevere e di comunicare; grado di ricezione determina la qualità della conoscenza. Lo scambio è preciso, ed è ripagato dalla quantità di attenzione conscia in una situazione complessa. Dove c’è attenzione, c’è potere.

Le istruzioni per la meditazione fanno parte degli insegnamenti segreti dei cabalisti e, a parte le regole generali, non sono rese pubbliche. Ogni discepolo impara dalla bocca del suo maggid. In generale, la meditazione nella cabala è uno sviluppo particolare delle normali preghie­re dell’ebreo devoto. La concentrazione meditativa permette al cabalista di scavare nelle profondità di un parti­colare soggetto - una parola di una preghiera o un aspetto dell’albero - e di arrestare così il suo pensiero perché rimanga concentrato sul soggetto. Questa focalizzazione raffinata è definita kavvanah, aderenza del pensiero a un singolo soggetto. In un tipo di kavvanah, il meditatore si concentra su ogni parola della preghiera comune con la sua massima attenzione, fino a che la sua mente non tra­scende il significato semplice delle parole e le usa come veicolo per raggiungere uno stato più alto. Azriel di Gerona, un cabalista medievale, descrisse il processo di kavvanah come un momento in cui «il pensiero si espande e ascende alla sua origine, cosicché quando la raggiunge, finisce e non può più ascendere ulteriormente». Come esito di questo stato, le parole della preghiera si trasfigurano, riempite di un influsso divino da questo svuotamento del pensiero.

Secondo la dottrina cabalistica, l’ingresso nel Paradiso interiore da parte di chi non abbia predisposto una base appropriata attraverso la purificazione di sé può essere pericoloso. Il Talmud racconta la storia di quattro rabbini che entrarono nel Paradiso: uno diventò pazzo, un altro morì e un altro perse la fede; solo uno, il rabbino Akiba, ritornò in pace. Gli scritti autorevoli di Abraham Abulafia, una delle elaborazioni più dettagliate della meditazione cabalistica, avevano come fine quello di insegnare un approccio sicuro al Paradiso interiore. La me­ditazione di Abulafia combina varie lettere dell’alfabeto ebraico in una meditazione sui nomi santi di Dio. Questo metodo è distinto dalla preghiera; l’aspirante vi si dedicava in isolamento piuttosto che in sinagoga, in orari stabiliti e sotto la guida del suo maggid. Halevi descrive il cammino percorso da chi pratichi questo tipo di meditazione: quando ripete il nome, il meditatore dirige la sua attenzione al di sopra dello yesod, la mente ordinaria li­mitata, nel tiferet, una consapevolezza che supera l’ego. Vale a dire, egli dirige il suo pensiero lontano da tutte le forme di questo mondo, focalizzandosi sul nome. Se i suoi sforzi incontrano la grazia di Dio, il sé si solleverà improvvisamente al di là del tiferet, in uno stato di estasi chiamato daat, o conoscenza. Qui il suo senso di separa­zione da Dio si dissolve, anche se per un solo istante. Egli è pervaso da una grande gioia, e afferrato da un dolce ra­pimento. Quando emerge da questo stato, ritornerà a es­sere conscio della ripetizione interna del nome, che egli aveva trasceso per quell’istante in uno stato che i buddhisti theravada potrebbero chiamare jhana.

La fine del cammino del cabalista è il devekut, in cui l’anima aderisce a Dio. Quando il meditatore stabilizza la sua coscienza a questo livello, non è più un uomo normale ma soprannaturale, uno zaddik, o santo, che è sfuggito alle catene del suo ego personale. Le qualità di chi abbia raggiunto questa condizione includono imperturbabilità, indifferenza a lode o biasimo, la sensazione di essere solo con Dio, e la capacità profetica. Il volere dell’ego è sommerso dalla volontà divina cosicché i propri atti servono Dio piuttosto che un sé limitato. Lo zaddik non ha più bisogno di studiare la Torah, la Legge, perché egli diventa la Torah. Un commentatore classico (Scholem 1974, p. 175) definisce il devekut come uno stato del­la mente in cuci si ricorda costantemente di Dio e del suo amore, e non si al­lontana il proprio pensiero da Lui, al punto che quando una persona così parla con qualcun altro, il suo cuore non è con questa persona ma è ancora davanti a Dio. E può senz’altro essere vero, di quelli che raggiungono questa posizione, che alla loro anima è accordata una vita immortale persino in questa vita terrena, perché essi stessi sono dimora dello Spirito Santo.

da D. Goleman, La forza della meditazione

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